C’era una volta Fineco, una banca online innovativa dove potevi trovare tutti gli ETF disponibili sul mercato.
Dinamica e intraprendente, capace di offrire sempre nuovi servizi altrimenti introvabili non solo in Italia, ma in tutta Europa, dopo il varo del regolamento europeo MiFID2 Fineco è diventata l’ombra di se stessa.
Tecnicamente, le sue funzionalità online non sono cambiate, ma il servizio offerto agli utenti è peggiorato radicalmente.
Anche per chi non ha mai usato questa banca online (e sono davvero in pochi) è facile accorgersi di questo cambiamento.
Infatti, visto il suo enorme parco utenti sviluppato nei suoi anni d’oro, è ovvio che sia abbastanza comune incontrare persone che si lamentano di Fineco.
E una delle lamentele più diffuse riguarda appunto l’accesso al mercato degli ETF.
Fineco si era infatti specializzata nell’offerta di questi strumenti innovativi per l’investitore medio che non ama il rischio di investire direttamente nei titoli azionari.
Negli ultimi 24 mesi, però, Fineco ha iniziato a restringere sempre più l’accesso a questi titoli, fino ad averli resi oggi uno strumento per “pochi eletti”, cioè per professionisti del campo finanziario con ingenti patrimoni dichiarati.
L’involuzione, da parte di Fineco e di altri brokers italiani, di tutto il servizio all’utenza media, diventato da “democratico” a “elitario”, l’abbiamo già discussa in questo articolo.
Invece in quest’altro articolo avevamo spiegato le cause di questa involuzione, che è la fame delle banche italiane di avere sempre nuove entrate.
Qui invece vogliamo focalizzarci proprio sugli ETF.
Perché fino a un paio di anni fa Fineco riteneva che gli ETF fossero uno strumento adatto alla sua clientela di investitori poco amanti del rischio, mentre ora li tratta come una classe di titoli pericolosa da maneggiare con cura solo attraverso la mediazione di un gestore patrimoniale o un consulente?
Il motivo è che per le banche italiane le commissioni che gli Italiani pagano (senza saperlo) per farsi gestire i loro risparmi da un promotore o un consulente, investendo generalmente in fondi comuni, sono ancora una fonte di entrate irrinunciabile.
Ma nei paesi civilizzati (non in Italia) i fondi comuni stanno perdendo la competizione con gli ETF per due ragioni:
- sono costosi (le commissioni sono nascoste, ma si pagano)
- performano peggio
Le banche del belpaese devono quindi fare di tutto per evitare che anche gli Italiani si approprino degli ETF e abbandonino il recinto del risparmio gestito, dove vengono regolarmente munti di laute commissioni.
Spesso l’enorme divario tra fondi e ETF non è così evidente all’Italiano medio, che viene ancora tenuto all’oscuro di questo “segreto”.
Ma il fatto che i fondi comuni, anche quelli azionari, siano poco performanti sta diventando ormai di dominio pubblico, visto che anche un giornale non specializzato in finanza come La Repubblica ne parla in questo articolo.
Meno evidente è forse la differenza in termini di costi tra ETF e fondi comuni, proprio perché entrambi non saltano subito all’occhio.
Infatti, nonostante il nuovo regolamento MiFID obblighi i gestori a fornire ogni anno al cliente un trasparente resoconto dei costi per le spese di commissioni e di gestione, bisogna mettersi d’impegno a decifrare la montagna di dati dove questi costi vengono seppelliti.
Quanto agli ETF, basta digitare su Google l’isin del titolo per trovare le pagine esplicative con inclusi i costi. Non tutti però hanno la pazienza di farlo.
I conti però sono presto fatti: in linea del tutto generale, possiamo dire che le commissioni da pagare per investire in un fondo comune oscillano tra l’1,5% e il 4% della cifra investita.
Questo vuol dire che se investi 100.000 euro in un fondo devi idealmente staccare ogni anno un “assegno” che va da 1.500 a 4.000 euro.
Per un investimento di 500.000 euro invece “l’assegno” oscillerà tra 7.500 e 20.000 euro (capisco che le banche italiane non vogliano rinunciare a questi “assegni”).
Invece la spesa massima per investire in un ETF non supera lo 0.20% di costi di gestione, più 20 euro di commissioni da pagare alla piattaforma quando compri il titolo.
Per un investimento di 100.000 euro, parliamo quindi di 220 euro, contro i 1.500-4.000 necessari per investire nei fondi. Invece per 500.000 euro parliamo di appena 1.020 euro l’anno contro i 7.500-20.000 richiesti dai fondi.
Una differenza enorme!
Volendo aggiungere una nota di curiosità all’argomento, cito una interessante ricerca di Morningstar del 2010 in cui era stato dimostrato che meno il fondo costa, più aumentano le sue possibilità di successo.
Questa apparente stranezza è dovuta ai seguenti motivi:
- come in tutte le attività umane, anche nella gestione dei fondi le persone che eccellono nel “mestiere” sono una minoranza, rispetto alla massa.
- le maggiori spese per le commissioni dei fondi ovviamente incidono sul rendimento
- negli ETF i guadagni vengono reinvestiti, permettendo di ottenere i cosidetti “interessi composti”, che fanno aumentare i rendimenti in proporzione geometrica.
Inoltre, l’offerta di ETF è sempre più competitiva e ogni anno escono nuovi titoli con commissioni ancora più basse.
Anche i fondi attivi avrebbero la possibilità di abbassare i costi, in modo da tornare ad essere appetibili, ma per ora preferiscono battere la concorrenza sulla maggiore abilità dei promotori delle banche e delle Sim di accaparrarsi ancora tante vacche inconsapevoli da mungere.
In Italia poi, come abbiamo detto, la concorrenza si batte semplicemente vietando l’accesso agli ETF. Un sistema molto più veloce ed efficiente, senza tante complicazioni, facilitato dal fatto che finora c’era un solo grande emittente di questi strumenti: Fineco appunto.
E’ bastato abbattere quel gigante, ridurlo all’ombra di se stesso per annullare in un colpo solo tutta l’innovazione e la modernità che aveva procurato nell’intera Europa.
Intanto le banche italiane, ormai al collasso, continueranno a “consigliare” ai propri clienti fondi di investimento con costi stratosferici, commissioni nascoste e, fra non molto, anche interessi negativi sui depositi.
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