giovedì, Marzo 13, 2025

Cosa dice la scienza sui reali effetti del prossimo halving di btc

Siamo ormai a poco piu’ di 5 mesi dal prossimo halving di bitcoin e, come sempre, nei media si inizia a discutere se i suoi noti effetti sul ciclo dei prezzi sarà ancora preponderante, oppure questa volta “sarà diverso”…

Nella maggioranza dei casi, questo tipo di discussioni sembrano riferirsi a un fenomeno quasi magico e capriccioso.

Per molti, gli effetti dell’halving sono come quelli del clima stagionale: l’anno scorso ad aprile è piovuto, ma chissà se anche quest’anno pioverà. Dio o il caso ci metteranno lo zampino, quindi non possiamo dire nulla a riguardo.

Eppure ormai abbiamo tutti gli strumenti a disposizione per analizzare l’halving e il ciclo di bitcoin da un punto di vista scientifico, misurando cioè tutti i principali fattori di economia fondamentale che operano al loro interno.

Non c’è niente di magico o di “divino” in questi fenomeni.

Al contrario, tutti i fattori che determinano l’andamento ciclico di bitcoin e l’halving sono misurabili, anche se non tutte queste misurazioni possono portare a fare ipotesi sul loro andamento futuro.

Banalmente, i cicli di bitcoin sono determinati da dinamiche di domanda e offerta che si ripetono con una certa regolarità.

Sia la domanda che l’offerta sono misurabili. Quindi, grazie a queste misurazioni, ormai diventate molto complesse e approfondite, è possibile analizzare l’andamento di questi cicli meglio di come si faceva appena quattro anni fa.

Domanda e offerta nel mercato cripto

La domanda è un fattore molto piu’ imprevedibile dell’offerta. Quindi per tentare delle proiezioni statistiche sui cicli futuri di btc, si utilizzano piu’ che altro i dati che riguardano l’offerta.

E dato che l’halving influisce proprio sull’offerta, se ne deduce che l’halving stesso è fra gli elementi che contribuiscono a rendere ricorrenti e costanti i cicli di btc.

Possiamo quindi dire schematicamente che il fattore offerta (che include l’halving) tende a rendere ripetibili i cicli di btc, mentre il fattore domanda vi porta una maggiore imprevedibilità.

Oggi possiamo dire che la domanda di bitcoin è in aumento, come mostrano le bande blu crescenti sulla destra del grafico qui sotto:

Ma naturalmente il comportamento umano è imprevedibile, perciò non abbiamo la certezza che questa domanda resti sostenuta per tutto il resto del ciclo.

Tutt’al piu’ posso dire che, secondo me, anche i flussi di capitale, che formano la domanda nel mercato cripto, sono prevedibili, perché seguono forse degli schemi ben precisi con cui si cerca di manipolare i prezzi in modo da accompagnare e pilotare la tendenza già di per sé ciclica dell’offerta.

Ma si tratta di mie opinioni personali che non possono essere dimostrate scientificamente.

In questo articolo perciò ci limiteremo ad analizzare l’offerta di btc, usando i grafici di Glassnode, la società di analisi che citiamo spesso nei nostri articoli e nel nostro canale Telegram, dai quali trarremo in modo semplificato delle ipotesi su cosa possiamo aspettarci da questo ciclo in base ai dati disponibili.

L’offerta di bitcoin spiegata semplice

Finché bitcoin resterà il “benchmark”, cioè il dominatore, in termini di volumi, il fattore “offerta” di tutto il mercato cripto sarà sempre legato alla caratteristica particolare che ha in bitcoin, dovuta proprio agli halving che ne dimezzano la quantità minata ogni quattro anni circa.

Ma l’offerta, cioè la disponibilità dei bitcoin e quindi di tutte le altre cripto, non è data solo dai bitcoin minati ogni giorno.

Quindi non basta dire che ogni quattro anni i prezzi di btc salgono a causa dell’halving che dimezza l’offerta disponibile.

Se cosi’ fosse, i prezzi dovrebbero restare sostenuti per molto tempo, invece di formare, l’anno dopo l’halving, il ben noto trend parabolico finale dopo il quale crolla giu’ tutto…

L’halving semmai fa in modo che i minimi di un ciclo non scendano mai sotto i minimi del ciclo precedente.

Ma l’andamento del ciclo pre e post halving a cui siamo abituati, quel tipico rialzo in due fasi che sta in mezzo a ciascun halving, si spiega solo analizzando l’altro fattore che determina l’offerta di btc, che è la quantità di bitcoin messi a deposito dagli investitori nelle fasi precedenti.

L’energia potenziale dei rialzi ciclici di bitcoin

Bisogna immaginare l’alternarsi di cicli ribassisti e rialzisti di btc come un’energia potenziale che viene immagazzinata in un ciclo per poi esplodere nel ciclo successivo:

Il grafico sopra schematizza le fasi di accumulazione (bande arancio) nelle quali gli investitori aumentano i loro depositi di coin approfittando dei prezzi in discesa nelle fasi ribassiste del ciclo.

Successivamente (aree verdi), questi coin vengono venduti man mano che i prezzi nuovamente in salita rendono conveniente tale vendite.

Le vendite quindi “distribuiscono” i coin (cioè ne aumentano l’offerta disponibile sul mercato), fornendo la “benzina” che alimenta appunto le fasi rialziste, dette di distribuzione, in cui si moltiplicano le operazioni di compravendita che provocano un circolo virtuoso di incremento dei prezzi.

Come dicevo, l’accumulazione forma l’energia potenziale che alimenterà il ciclo rialzista successivo. Quindi piu’ coin saranno accumulati (messi a deposito dagli investitori), piu’ forte sarà il rialzo successivo.

A questo proposito, un aspetto interessante dei vari cicli è che, ad ogni ciclo, aumenta la parte di investitori che accumula coin nei ribassi, aspettando il ciclo a rialzo successivo.

Infatti si dice che il mercato ad ogni ciclo diviene “piu’ maturo”, intendendo che aumenta il numero degli investitori che non si fanno piu’ impressionare dalla volatilità e con disciplina comprano quando i prezzi sono bassi e vendono quando i prezzi risalgono.

Anche questo ciclo non fa eccezione su questo aspetto.

Come mostra il grafico sotto, oggi non sono piu’ solo gli investitori a lungo termine (curva blu) ad aver incrementato il valore dei loro depositi, ma anche diverse categorie di traders (accomunati nella curva rossa) stanno adottando lo stesso comportamento conservativo.

Inoltre, pure le varie forme di “staking” (curva azzurra) e di servizi di custodia perlopiu’ bancaria (curva verde) si aggiungono a determinare un aumento dei coin accumulati.

A questo giro quindi l'”energia potenziale” è molto superiore rispetto al ciclo precedente. E questo fatto tenderà ad amplificare poi tutto il processo con cui, nella fase rialzista, avverrà la rivalutazione del prezzo dei coin rispetto al loro costo iniziale.

Nei prossimi grafici, vedremo che proprio il rapporto tra il costo iniziale, al quale questi coin erano stati comprati prima di essere messi a deposito, e il loro prezzo attuale è la variabile piu’ importante per determinare il contributo “rialzista” di questi coin quando vengono poi distribuiti nelle fasi successive.

In altre parole, la velocità e la forza della rivalutazione dei prezzi è strettamente dipendente dal numero di investitori che riescono ad andare in profitto nelle varie fasi di un ciclo.

Per brevità tralascio di pubblicare tutti i grafici con cui viene analizzata questa dinamica, ma chi vuole approfondire può leggere direttamente l’articolo di Glassnode.

Qui cito solo due ultimi grafici che mostrano cosa c’entra l’halving in tutto questo.

Come l’halving amplifica l’energia potenziale causando la fase finale parabolica del ciclo

Questo grafico mostra l’importanza del rapporto tra:

  1. il numero di investitori in profitto in un dato momento e

2. il valore totale che il mercato ha in quel momento.

Il fattore 1 è rappresentato dalla variabile “Realized Cap”, cioè dalla quantità di coin accumulati che sono in guadagno in base al prezzo che btc ha in quel momento.

Il fattore 2 invece è rappresentato ovviamente dal “Market Cap”, cioè dalla capitalizzazione di mercato che btc ha in quel momento.

Devo specificare che il Realized Cap è fatto da coin in deposito ancora non spesi, quindi esprime un’energia potenziale inespressa.

Come si può immaginare, durante i mercati ribassisti avanzati, basta che vengano effettivamente venduti da 0,10 a 0,30 dollari di questo Realized Cap potenziale per provocare una variazione del Market Cap di 1,0 dollaro.

Invece nelle fasi avanzate dei mercati rialzisti (bande arancioni) sono necessari più di 0,75 dollari, e spesso più di 1,0 dollari, di Realized Cap per ottenere la stessa variazione della capitalizzazione di mercato di 1,0 dollari.

Naturalmente, quest’ultima situazione non è sostenibile a lungo, perché è come un processo termodinamico in perdita, nel quale il costo necessario a produrre energia eccede il costo dell’energia finale prodotta.
Ecco perché a quel punto la rivalutazione dei prezzi inizia a perdere forza, fino a invertirsi in una discesa.

Ma torniamo invece al primo caso, quando bastano 0,1-0,3 dollari per aumentare di 1 dollaro il market cap.

Oggi ci troviamo proprio in tale range (cerchio azzurro tratteggiato in basso), indicato dalla linea mediana a lungo termine (in rosso) di 0,25 dollari.

Siamo quindi nella situazione ottimale per una ripartenza sostenuta della dinamica dei prezzi.

Per vedere il ruolo che ha l’halving in tutto questo, ci aiutiamo col grafico successivo, che mostra come in realtà questo rapporto tra realized cap e market cap è grandemente influenzato dalla quantità di coin che vengono minati.

Qui la banda arancio sullo sfondo rappresenta i coin minati disponibili, mentre in primo piano le bande blu mostrano la quantità di coin accumulati disponibili.

I cerchi azzurri evidenziano che nelle fasi prima e dopo l’halving, i coin accumulati diventano preponderanti rispetto ai coin minati (i picchi delle bande blu superano le bande arancio che sono dietro).

In pratica, in quelle fasi l’offerta (ancora potenziale e non ancora espressa) che deriva dai coin accumulati supera enormemente l’offerta esistente assicurata dai coin minati.

E naturalmente l’halving, dimezzando la parte di offerta derivante dal mining (riducendo la banda arancio), aumenta ulteriormente la forza con cui l’energia immagazzinata in questi coin accumulati si abbatterà sulle bande arancio, una volta che verranno realmente spesi.

Nel ciclo attuale (cerchio rosa a destra) l’accumulo eccede ormai di molto il mining.

Anzi , a dire il vero, non siamo ancora in una fase molto avanzata verso l’halving e già l’eccedenza è paragonabile a quella delle fasi avanzate dei cicli precedenti.

Conclusioni

Tutto questo è il segno che la fase finale parabolica del rialzo post halving sarà eccezionale, anche piu’ delle volte precedenti?

Staremo a vedere; anche perché, come ho detto all’inizio, ci sono sempre i fattori psicologici imprevedibili a influenzare l’andamento di questi cicli. Perciò non possiamo stabilire una corrispondenza assoluta tra questi dati e l’esito reale delle fasi del ciclo.

Tuttavia, questi dati sono già sufficienti a poter affermare una cosa: che questa volta, almeno sulla base dei dati oggettivi “NON è diverso”.

Le condizioni di domanda e offerta sono del tutto simili, se non migliori, rispetto a quelle degli halving precedenti.

Certo, non possiamo affermare con certezza assoluta che questo ciclo si ripeterà come quelli precedenti, ma possiamo dire che ci sono le condizioni necessarie perché ciò avvenga, salvo eventuali fattori imprevedibili che possono sempre accadere.

Divorzio tra la Cina e Londra sul prezzo dell’oro

A Chinese worker shows a 1000g-weight gold bar at a gold shop in Beijing on November 8, 2010. China's central bank chief has warned that the risks of excessive liquidity, inflation, asset bubbles and bad loans will "increase significantly", in comments published. AFP PHOTO CHINA OUT (Photo credit should read STR/AFP via Getty Images)

In un articolo appena pubblicato da Bullionstar, uno dei nostri siti di riferimento per l’oro, apprendiamo un fatto clamoroso: le quattro banche cinesi implicate nelle aste londinesi dove si fissa giornalmente il prezzo dell’oro, sono scomparse dalla lista dei partecipanti.

Facciamo un breve riepilogo storico.

Il LBMA Gold Price auction è la piazza di Londra dove avvengono le compravendite di oro che fissano giornalmente il prezzo ufficiale di questo metallo.

La piazza è stata inaugurata nel 2015, in sostituzione della piazza precedente, il London Gold Fixing auction, sempre piu’ accerchiata dalle inchieste giudiziarie sulla manipolazione del prezzo del metallo giallo.

Per rifarsi una “verginità”, la nuova piazza non solo è stata messa sotto la supervisione della FCA, cioè dell’autorità regolatoria finanziaria del Regno Unito, ma ha anche accettato di includere un numero maggiore di banche partecipanti, in modo da rendere piu’ “trasparente” la fissazione giornaliera dei prezzi.

Nell’ambito di questo nuovo corso, anche le banche cinesi furono invitate a far parte del “cartello”.

Ed è cosi’ che, tra il 2015 e il 2016, quattro banche cinesi: Bank of China, China Construction Bank (CCB), Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) e Bank of Communications sono entrate a far parte del LBMA Gold Price auction.

La notizia di oggi è che, appunto, queste quattro banche cinesi sono silenziosamente sparite dalla lista dei partecipanti alla piazza londinese, senza suscitare alcun commento da parte della LBMA, della FCA, dei media mainstream, dell’amministratore dell’asta ICE Benchmark Administration e dalle stesse banche cinesi.

Non sappiamo quindi se il ritiro della Cina dalle aste di Londra sia stato volontario, magari motivato da ragioni geopolitiche, oppure sia stato richiesto da Londra, per motivi, anche qui, geopolitici, o per ragioni regolatorie.

Ma possiamo già notare alcune conseguenze di questa uscita…

All’epoca, l’entrata di queste banche fu celebrato dalla stampa mainstream occidentale, secondo cui le banche cinesi avrebbero contribuito a fornire una price discovery piu’ aderente agli scambi reali dell’oro e quindi a riflettere le dinamiche reali della domanda e dell’offerta.

Possiamo perciò dedurre che, ora che le quattro banche non ci sono piu’, la price discovery di Londra sarà meno aderente al mercato reale dell’oro.

A ciò si aggiunge anche un problema di liquidità per Londra. Problema che possiamo desumere da un evento analogo accaduto nel 2017, quando UBS, Standard Chartered e Société Gènerale lasciarono la piazza londinese per motivi di rivalità tra le società di emissione dei derivati usati per gli interscambi.

All’epoca, come disse la Reuters , la minore liquidità dovuta alla mancata partecipazione di queste banche iniziò a portare un aumento della volatilità che creava episodi di improvvise divergenze tra il prezzo fissato a Londra e il prezzo dell’oro fisico…

Questo problema si ripresenta ancora oggi (ne abbiamo parlato qualche volta nella nostra newsletter), ma questa volta l’ulteriore riduzione del numero delle banche partecipanti e il trasferimento in Cina degli scambi per la price discovery produce una prevedibile competizione tra la piazza londinese e quella cinese, con sensibili differenze tra il prezzo di Londra e quello fissato in Cina dallo Shanghai Gold Exchange.

Infatti, come vediamo in questo grafico, il prezzo cinese (curva rossa) è costantemente superiore a quello londinese (curva blu):

Questa incredibile evoluzione della price discovery dell’oro è da aggiungere agli altri tasselli che abbiamo segnalato in altri due importanti articoli recenti sull’oro (qui e qui).

Sentiamo che ci sono dei cambiamenti fondamentali in corso sull’oro; anche se al momento non è ancora possibile avere una visione completa di ciò che sta succedendo.

Questi cambiamenti sono il sintomo di qualcosa di piu’ ampio che bolle in pentola nell’economia globale, o si tratta solo di aggiustamenti temporanei che non avranno conseguenze su larga scala?

Ancora non lo sappiamo. Ma di certo dobbiamo monitorare molto da vicino questa situazione.

Ti terremo aggiornato…

Perché i tassi americani continuano a salire?

Oggi trattiamo un argomento cardine dell’economia attuale: l’aumento dei tassi d’interesse dei titoli di stato americani a lungo termine.

Questi tassi, che influenzano in vari modi diversi aspetti cruciali dell’economia, non sono influenzati dalla politica monetaria della banca centrale americana, ma solo dal mercato.

Nel nostro articolo precedente avevamo analizzato l’influenza di breve termine del mercato dei derivati su questi tassi.

Oggi descriviamo un altro fenomeno che si affianca al precedente, cioè lo squilibrio piu’ allarmante tra una offerta in continuo aumento e una domanda in continua riduzione.

L’aumento dell’offerta dei titoli di stato è determinata dall’incremento delle voci di spesa del governo, che, già quasi fuori controllo, probabilmente avrà una accelerazione per finanziare le guerre in Ucraina e Israele.

La riduzione della domanda invece è determinata essenzialmente dalla riduzione dei compratori esteri, come la Cina, il Giappone e altri.

Questi paesi, invece di comprare, stanno vendendo quantità crescenti di titoli di stato americani.

E non lo fanno per provocare una “dedollarizzazione” dell’economia, ma perché non riescono a fare fronte ai prezzi crescenti dei beni e le materie prime che sono quotati in dollari.

Questi paesi quindi liquidano obbligazioni e altri titoli americani, ottenendo in cambio i dollari di cui hanno disperato bisogno per sopravvivere. Tutto qui.

L’inflazione dei beni quotati in dollari sta quindi facendo crollare la quota di detentori stranieri del debito americano.

Come mostra il grafico sotto, dieci anni fa i paesi esteri detenevano il 45% del debito pubblico statunitense, mentre ora, nonostante l’aumento delle loro partecipazioni in questo ultimo periodo, la loro quota è scesa al 29%:

I paesi che ancora comprano titoli di stato americani, come la Svizzera, diversi paesi europei e alcuni paradisi fiscali, come le Cayman, dietro sollecitazione del loro potente “alleato”, stanno incrementando gli acquisti, ma non abbastanza velocemente da tenere il passo con la folle crescita del debito americano.

Per tale ragione, altri acquirenti devono essere attratti in questo mercato.

Ma dal momento che la Fed, come sappiamo, è impegnata in un QT e quindi non sta acquistando nuovi titoli di stato americani per sostituire quelli che ha in scadenza, restano gli acquirenti del libero mercato: banche, fondi obbligazionari, compagnie assicurative, fondi pensione, altri investitori istituzionali e privati.

Questi acquirenti, appunto, fanno parte del libero mercato. Non hanno alcun obbligo politico o istituzionale a comprare il debito americano. Perciò devono essere attratti da rendimenti più elevati…

Quindi, riassumendo ancora, la situazione è questa: la spesa in deficit da parte del governo americano, ormai quasi fuori controllo, deve essere finanziata, inondando il mercato con enormi quantità di titoli del Tesoro che hanno bisogno di trovare acquirenti.

Il rendimento di questi titoli è l’unico modo per convincere un numero sufficiente di investitori a comprare.

Perciò, i tassi dei titoli di stato americani a lunga scadenza aumentano, finché non soddisfano la loro scarsa domanda.

Con l’ultima emissione, gli acquirenti di queste obbligazioni hanno trovato il 5% un rendimento abbastanza interessante. Perciò oggi i tassi si sono fermati a tale livello.

Ciò non toglie che altri potenziali acquirenti sperano che i rendimenti aumentino ulteriormente e compreranno solo quando la soglia del 5% verrà superata.

In altre parole, il mercato dei titoli di stato americani ha imboccato un circolo vizioso.

Piu’ il governo aumenterà le emissioni dei titoli per finanziare guerre e altre spese ormai fuori controllo, piu’ l’offerta di questi titoli dovrà soddisfare una domanda sempre piu’ bassa, piu’ i tassi aumenteranno, piu’ aumenterà la spesa del governo per pagare gli interessi su questi tassi.

Useremo questo articolo come base per discutere alcune importanti conseguenze di questa spirale fuori controllo.

Qui però vorrei concludere con una riflessione che pochi hanno fatto in relazione a questo problema.

Molti dimenticano infatti che nell’economia contemporanea c’è un’altra importante categoria di compratori del debito americano: le società che gestiscono le stablecoin peggate al dollaro…

Anche tutti coloro che comprano queste stablecoin, o almeno quelle che sono chiaramente collateralizzate con titoli di stato americani, come USDC, PYUSD, ecc, sono in pratica compratori di debito americano

Pensi ancora che in America abbiano voglia di eliminare l’uso di queste valute e quello delle criptovalute in genere, entrambi strettamente connessi? O che l’Unione Europea vieterà l’uso di queste stablecoin in base alle sue nuove normative, dichiarando in pratica un embargo sul dollaro?

Io avrei seri dubbi in proposito…

Attenzione a questa divergenza nel mercato obbligazionario…

Non c’è dubbio che l’economia stia arrivando alla resa dei conti fra le illusioni dei media e delle banche centrali e la realtà.

Quando ciò accade, si presentano delle divergenze fra alcuni asset e l’economia, che possono creare occasioni irripetibili per un investitore.

Oggi la divergenza piu’ importante di tutte è quella che si sta creando nel mercato obbligazionario dei titoli di stato USA.

Il grafico sotto mostra i valori piu’ recenti dell’indice COT, cioè delle posizioni long e short aperte in quella parte del mercato dei derivati che scommette sui titoli di stato.

Il grafico mostra il numero record di posizioni short contro i titoli del Tesoro (le bande giallo arancio sulla estrema destra):

Questo insolito accumulo di posizioni short, assieme alle ultime dichiarazioni di Powell, sta spingendo sempre piu’ in basso i prezzi dei titoli di stato, facendone salire in modo innaturale i tassi (inversi ai prezzi, come si sa).

Il grafico mostra che una situazione simile si era verificata nel 2018, cioè l’ultima volta che la Fed aveva alzato i tassi d’interesse (nel grafico, la banda giallo arancio corrispondente all’anno 2018).
Archiviamo per ora questa analogia col 2018, perché ci torneremo a breve…

Ora, sebbene gli speculatori che shortano possano provocare tassi più elevati per un certo tempo, alla fine sono i flussi di capitali istituzionali a determinare nel medio e lungo termine l’andamento dei prezzi e dei tassi in questo mercato.

E dove stanno andando questi flussi?

Ce lo dice il grafico seguente, che mostra un aumento evidente dei volumi di acquisto nei titoli di stato a 20 anni (cerchio nero in alto), mentre i prezzi (curva blu) restano ancora eccezionalmente bassi.

(Per inciso, questo volume dei flussi di capitali è il più alto dalla fine del 2020):

E’ questa la divergenza di cui parlavo.

Un aumento dei volumi (quindi un aumento dei flussi di capitali nei titoli di stato USA) dovrebbe far risalire la curva blu, che invece resta ancora a terra a causa dei media, della Fed e degli speculatori short.

Quell’aumento dei volumi contrasta con la narrativa dei media sulla “morte del dollaro” e sui “debiti e deficit insostenibili del governo USA” che continua ad alimentare i timori di una spirale dei tassi di interesse.

I flussi di capitali parlano chiaro e suggeriscono una storia diversa.

L’economia statunitense si sta dimostrando più robusta rispetto alle sue controparti – e il rendimento dei titoli del Tesoro a 10 anni è sostanzialmente ancora elevato e quindi appetibile.

Perciò, le riserve estere in eccesso stanno di nuovo confluendo nel dollaro statunitense.

E quando le riserve confluiscono nel dollaro USA, quei dollari vengono convertiti in buoni del Tesoro USA.

Come abbiamo detto in quest’altro articolo, gli acquirenti esteri non hanno ancora raggiunto dei volumi tali da poter invertire la crescita dei tassi.

Forse i paesi esteri non torneranno piu’ a detenere il 45% del debito americano.

Ma, come spiegato in quell’articolo, ciò non vuol dire che la scarsità della domanda di questi titoli verrà abbandonata a se stessa al punto da innescare una spirale senza controllo di aumento dei tassi.

Nell’articolo citato abbiamo spiegato esattamente perché questa spirale non verrà innescata, grazie all’intervento della Federal Reserve, peraltro già preventivato dal Congressional Budget Office.

Il mercato obbligazionario è il piu’ grande fra tutti, ed è guidato da capitali istituzionali di grande peso, cioè quello delle banche centrali.

Perciò, tornando al nostro argomento, quando il contrasto fra questi capitali e il mercato dei derivati arriverà allo scontro finale, indovina quale dei due è destinato a rompersi?

Ce lo ricorda il 2018…ti avevo detto di tenerlo a mente…

Nel 2018 i prezzi dei titoli di stato, anche allora fortemente shortati dagli speculatori, non poterono resistere alle pressioni della realtà (cioè dei flussi di capitali istituzionali) e iniziarono a risalire, costringendo gli speculatori a coprire le posizioni short man mano che andavano perdendo valore.

In altre parole, si creò uno short squeeze che costrinse la Federal Reserve a un massiccio programma di “reverse repo” per salvare i bilanci degli hedge fund in caduta libera.

E’ probabile che anche questa volta la distorsione nel mercato obbligazionario si risolverà con un intervento di emergenza della Fed e la sua macchina per stampare soldi.

Non dimentichiamo che nel 2022 alcuni colleghi di Powell, cioè il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey e il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, hanno già eseguito iniezioni di liquidità in situazioni di emergenza.

E cosa accadrebbe se Powell non inondasse il mercato di liquidità, sia per andare in aiuto agli hedge fund, sia per evitare la spirale dei tassi ipotizzata nel nostro altro articolo?

Gli investitori fuggirebbero dal mercato dei titoli di stato, che per parte sua si avvierebbe alla piena autodistruzione, e si dirigerebbero verso asset come oro e cripto.

Quindi in entrambi i casi, sia che vi sia nuova liquidità della Fed, sia che il mercato obbligazionario vada a rotoli, gli investitori si dirigeranno verso gli asset alternativi, cioè oro e criptovalute.

Approfittiamo quindi delle momentanee discese di prezzo di questi due asset (oro e cripto) per accumulare posizioni che si rivaluteranno fortemente quando la realtà tornerà a dominare i mercati.

Londra ha perso il controllo dell’oro

Negli ultimi tre secoli il prezzo mondiale dell’oro è stato sempre determinato dalle banche occidentali attraverso il mercato di Londra.

Questo dominio incontrastato dell’occidente è diventato sempre piu’ forte, quasi ossessivo, dopo la crisi dei debiti pubblici del 2011-2012.

Infatti, l’oro è il competitor per eccellenza dei titoli di stato, su cui si basa il debito pubblico.

Per questo, come vediamo nel grafico sotto, a partire dal 2012 le banche centrali occidentali, temendo una crisi di credibilità dei titoli di stato emessi dai governi e un ritorno dei risparmiatori all’oro, commissionarono alle banche di Londra una massiccia stagione di vendite (le bande dorate inverse nel rettangolo rosso) allo scopo di deprimere il prezzo del metallo giallo fino al valore di circa 1300 dollari l’oncia.

Questo range di prezzo è stato mantenuto con polso di ferro per circa 8 anni, anche grazie alle manipolazioni nei mercati dei derivati.

Il giocattolo però ha iniziato a rompersi dopo il covid, quando le banche londinesi hanno dovuto riprendere gli acquisti di oro per soddisfare una domanda da parte del mondo finanziario occidentale, che cercava di coprirsi dai rischi che iniziavano a minacciare l’economia di questa parte di mondo.

L’oro a quel punto è risalito al livello di circa 1900 dollari: un livello di guardia oltre il quale, secondo le banche centrali occidentali, la competizione tra titoli di stato e oro inizia ad essere troppo a favore del metallo giallo.

Per giunta, tra il 2022 e il 2023 le stesse banche centrali hanno iniziato una politica di aumento dei tassi d’interesse che ha provocato una inaspettata perdita della consueta relazione inversa dei tassi con l’oro.

Questa relazione inversa (ne abbiamo parlato qui) è essenziale per mantenere l’impressione che i titoli di stato e l’oro siano asset equivalenti, per quanto opposti fra loro.

Ma da quando questa relazione inversa è saltata, appare sempre piu’ evidente che l’oro non è una semplice copertura dei tassi d’interesse. Appare evidente che, fra i due asset, semplicemente ce n’è uno (indovina quale) che non ha alcun valore di prezzo affidabile su cui poter basare una qualsivoglia relazione inversa.

Per tutti questi motivi, dal 2022 a oggi Londra ha tentato di riprendere il controllo, riportando in basso il prezzo dell’oro con le massicce vendite nette, visibili nel grafico precedente, che però, a sorpresa, non sono riuscite nel loro intento.

Infatti, come mostra la curva nera nel grafico, il metallo giallo, per la prima volta dopo quasi tre secoli, ha mantenuto il livello intorno a 1900 dollari (cerchiato nel grafico) “disobbedendo” agli ordini di Londra.

Com’è potuta accadere una cosa del genere?

Chi vuole approfondire le probabili cause della resilienza dell’oro, può leggere questo articolo di Gainesville Coins, nel quale vengono fatte diverse ipotesi: dagli gli acquisti di oro delle banche centrali non occidentali alla crescente domanda privata turca e cinese.

Particolarmente interessante per noi è l’ipotesi che riguarda le banche centrali non occidentali.

Gli autori dell’articolo hanno scoperto nel mercato di Hong Kong una possibile attività di acquisti nascosti di oro da parte delle banche centrali non occidentali, che potrebbero indicare una ben piu’ ampia attività analoga su altre piazze, completamente al di fuori dai radar doganali (visto che l’oro delle banche centrali non è soggetto a controlli).

I principali sospettati della “ribellione” dell’oro nei confronti di Londra sono quindi le banche centrali non occidentali.

Tuttavia, la perdita di controllo da parte di Londra non va vista in una logica di semplice contrapposizione tra oriente e occidente.

Come abbiamo dimostrato in questo articolo, le banche centrali di tutto il mondo si sono sempre coordinate sul prezzo dell’oro, senza alcuna competizione o divergenza di vedute. Il primato di Londra non è mai stato seriamente messo in discussione.

Quindi, questa insolita disparità fra oriente e occidente può avere i seguenti significati:

a) le banche centrali orientali e occidentali hanno semplicemente concordato un nuovo range di prezzo, tra 1800 e 1900 dollari, piu’ consono alla precaria situazione finanziaria globale, oppure…

b) dal momento che molti paesi non occidentali hanno iniziato a commerciare in valuta locale e non piu’ in dollari, e dal momento che, come abbiamo spiegato qui, in tali transazioni è l’oro, non il dollaro, la valuta “ponte” per i passaggi da una valuta locale all’altra, ciò sta creando un aumento di richiesta di oro.
La richiesta proviene sia da parte dei paesi che devono usare l’oro per questi scambi, sia da parte della Russia e della Cina, che hanno impegnato le loro valute nazionali in tali scambi e devono perciò mantenere un cambio fisso di rubli e yuan con l’oro. Infine…

c) da quando gli Stati Uniti hanno sequestrato le riserve ufficiali in dollari della Russia nel 2022, le banche centrali non occidentali stanno accumulando oro per proteggersi da possibili “eventi monetari avversi” che possono colpire i loro asset in dollari (dalla confisca da parte di paesi nemici, a eventuali crisi finanziarie americane, ecc.).

Come si vede, lo scenario è complesso e le cause di questa situazione sono molteplici e non tutte chiare.

Una cosa però è evidente: se il baricentro del prezzo dell’oro dovesse spostarsi fuori dall’occidente in modo permanente, questa sarebbe la spia di cambiamenti molto profondi nell’economia globale.

Al momento tuttavia non sappiamo se è davvero cosi’, oppure si tratta solo di una fase transitoria, dopo la quale Londra riprenderà il controllo dell’oro.

Per capire se ci sono profondi fattori economici fondamentali dietro a tutto questo è necessario monitorare e analizzare le cose per almeno un altro anno, o forse piu’…

Perché i futuri tagli ai tassi della Fed sono una certezza

Nonostante ciò che si dice nei media, la possibilità di una lunga serie di ribassi dei tassi d’interesse nei prossimi due anni da parte della Fed è un’opinione molto diffusa a Wall Street.

Ci sono svariati argomenti economici, finanziari e politici a sostegno di questa ipotesi, molti dei quali sono stati trattati anche da noi in molti articoli e diversi post su telegram.

In questo articolo presenterò uno dei meno noti fra tali argomenti, che tuttavia è tenuto in gran considerazione proprio dalla Federal Reserve: il “tasso d’interesse neutro”.

Infatti, anche nei recenti discorsi di Powell il tasso di interesse “neutro” è stato citato piu’ volte.

Cosa vuol dire in realtà?

Il tasso di interesse “neutro” è un valore teorico che rappresenta il tasso di interesse “ideale” che in un dato momento sarebbe necessario per portare l’economia alla piena occupazione mantenendo costante l’inflazione.

Quando la Fed eccede, come nel 2022, nella sua politica sui tassi, allontanandosi dal tasso neutro “ideale”, lo fa consapevolmente. E sa benissimo che a un certo punto non può tirare troppo la corda e dovrà prima o poi tornare vicino al tasso ideale, per non mettere a rischio l’economia e la capacità dello stato di sostenere il proprio debito pubblico.

Ecco perché Powell, nel suo ultimo discorso, di fronte agli ultimi dati che mostravano la possibilità di un raffreddamento dell’inflazione, ha subito affermato che se la disinflazione prenderà davvero piedie, l’obiettivo della Fed sarà quello di riportare i tassi al loro valore “neutro”.

Ma quale sarebbe questo valore neutro, in base ai dati economici attuali?

In questo articolo mostreremo che il tasso neutro oggi è molto vicino a quello degli anni 10 del XXI secolo, quindi molto vicini allo zero.

Ma andiamo con ordine…

Il grafico qui sopra mostra che il tasso di interesse neutro R* si è gradualmente abbassato negli anni ’60, ’70, ’80, ’90 e 2000 con il miglioramento della produttività economica e l’attenuazione delle pressioni inflazionistiche naturali.

R* è poi crollato dopo la Grande Crisi Finanziaria del 2008 e si è stabilizzato intorno a livelli estremamente bassi di ~0,7% per tutti gli anni 2010.

Ultimamente, dopo la pandemia, R* era salito sopra l’1%, mentre ora è tornato ai livelli pre-pandemia e addirittura al di sotto.
Infatti, la stima più recente, secondo il modello HLW, è di un tasso dello 0,58% nel primo trimestre del 2023.

Il tasso di interesse neutro è un tasso “puro” che non include l’inflazione. Quindi, il tasso di interesse nominale ideale, quello a cui Powell ha detto di voler tornare se la disinflazione persisterà, sarebbe il tasso naturale più il tasso di inflazione, cioè R* più CPI (prezzi al consumo).

In effetti, il grafico mostra che negli ultimi 50 anni, le misurazioni di R* più CPI (curva bianca) sono sempre state una buona approssimazione del tasso che è stato poi realmente stabilito dalla Federal Reserve (curva rossa).

Quindi, per capire a quale tasso Powell si riferisce realmente, quando parla di tornare a un tasso neutro, bisogna calcolare R* più CPI.

Attualmente, R* è circa 0,6%, mentre il CPI è del 3,2%. Pertanto, R* + CPI = 3,8%.

Se quindi i prezzi al consumo (CPI) restassero al livello attuale, il tasso a cui Powell aspira sarebbe 3,8%.

Tuttavia c’è un crescente consenso sul fatto che CPI dovrebbe scendere ancora, tornando al 2% nel 2024. In tal caso il tasso di cui parla Powell sarebbe R* + CPI = 0,6% + 2% = 2,6%.

Attualmente il tasso federale è del 5,25%. Quindi per arrivare a 2,6%, Powell dovrebbe attuare 10-11 riduzioni dei tassi nei prossimi due anni.

Come ho detto all’inizio, la possibilità che la Fed taglierà i tassi più volte nel 2024 e nel 2025 non è piu’ un’ipotesi isolata, ma è ormai un’idea molto diffusa a Wall Street. Meglio ancora, anche la stessa Fed, per bocca dei suoi rappresentanti, ha fatto capire di prevedere molte riduzioni dei tassi in futuro.

La figura sotto mostra, con le curve colorate, le previsioni di Wall Street e, con la curva bianca tratteggiata, la previsione della Federal Reserve su questi tagli.
Come si vede, il numero e la profondità dei tagli ipotizzati da Wall Street e da Powell sono molto simili.

Ma cosa succede alle borse quando la Fed riprende a tagliare i tassi?

Dipende dal contesto economico.

Quando la Fed taglia i tassi per combattere una profonda recessione, le borse ovviamente scendono.

Al contrario, quando la Fed taglia i tassi in assenza di una recessione, le borse salgono.

Il grafico sotto mostra casi di questo secondo tipo avvenuti a metà degli anni ’80, metà degli anni ’90, fine anni ’90 e nel 2019 (frecce verdi sulla curva rossa nella metà inferiore e aree verdi sulla metà superiore del grafico):

Ci sono diverse prove a sostegno dell’ipotesi che anche questa volta la Fed potrà abbassare i tassi in assenza di una recessione.

Nei nostri articoli e nei post del canale Telegram abbiamo fornito svariate di queste prove, soprattutto riguardo la possibilità di una ripresa economica americana, almeno fino al 2025.

Qui, a scopo riassuntivo, presentiamo una delle piu’ note fra queste prove, cioè il Leading Economic Indicators del Conference Board, o LEI.

Come mostra il grafico, LEI è crollato nel 2022, per poi stabilizzarsi in un territorio profondamente negativo nel 2023.

In genere, quando LEI raggiunge un punto di minimo importante come quello attuale, fa poi una brusca virata verso l’alto e rimbalza fortemente negli anni successivi.

In altri articoli e post abbiamo spiegato con tanti altri argomenti la stessa cosa, cioè che il peggio del rallentamento economico post pandemico negli USA sembra essere avvenuto nel 2022 e che nei prossimi due anni l’economia americana sarà in ripresa. Il LEI non fa altro che presentare in modo sintetico questa possibilità, combinando l’analisi di moltissimi fattori economici in un indice semplice ed elegante.

Quindi, per concludere, è ragionevole presumere che la Fed taglierà i tassi piu’ volte entro i prossimi 2 anni. La stessa Fed dice di volerlo fare, allo scopo di avvicinarsi al tasso di interesse neutro, entro il quale l’economia e il debito pubblico sono meno a rischio.

E in base ai ragionamenti appena fatti, è probabile che l’economia non sarà in recessione, quando avverrano questi tagli, e quindi l’azione della Fed provocherà un forte incremento delle borse.

Come sempre monitoreremo continuamente la situazione per verificare se le cose andranno realmente cosi’.

Il cambio di paradigma del trend dell’oro

Un grande cambiamento si è verificato nel mercato dell’oro da quando la Russia ha invaso l’Ucraina e l’Occidente ha sequestrato le attività denominate in euro e dollari dalla banca centrale russa.

Finora infatti il driver più importante per il prezzo dell’oro in dollari è stato il rendimento a 10 anni dei Treasury Inflation Protected Securities (TIPS), cioè su quel tipo particolare di buoni del tesoro che hanno un rendimento aggiustato all’inflazione.

Il rendimento dei TIPS viene considerato come il tasso di interesse “reale” dei buoni del tesoro, al di là di quello ufficiale, che non tiene conto dell’inflazione.

Ora, per circa 15 anni oro e TIPS sono stati strettamente e inversamente correlati.

La logica alla base di questa correlazione inversa era che l’oro è stato sempre considerato una protezione sui titoli di stato statunitensi, dal momento che non è legato a eventuali, anche se improbabili, default dello stato.

Ma vediamo nel grafico qui sotto come sta cambiando questa correlazione finora considerata “tradizionale” per l’oro…

Premetto che nel grafico l’andamento dei tassi dei TIPS è stato invertito, per evidenziare ancora meglio la correlazione con l’oro.

Possiamo notare che, se appunto dal 2011 al 2021 le due curve sono andate di pari passo, all’inizio del 2022 il rendimento dei TIPS (curva azzurra) ha avuto un’impennata, che nel grafico invertito viene mostrata come una forte discesa:

In base alla tradizionale correlazione, anche la curva rossa dell’oro avrebbe dovuto seguire la discesa di quella azzurra; ma ciò non è avvenuto.

Infatti, se il rendimento dei TIPS è salito da -1% a febbraio a +1,7% a novembre 2022, l’oro sarebbe dovuto scendere da $1.900 l’oncia a $1.000, mentre invece si assestato a $1.700.

Il grafico seguente, piu’ ravvicinato, evidenzia ancora meglio la divergenza tra i due trend, con la curva azzurra (TIPS) in caduta libera, mentre quella rossa (oro) che resta in trend positivo, anche se con una certa correzione finale a ribasso:

Nel secondo grafico si nota meglio anche il fatto che, da novembre 2022, il rendimento dei TIPS, dopo l’impennata iniziale, è leggermente diminuito, ma il prezzo dell’oro, che secondo la “vecchia” correlazione inversa sarebbe dovuto salire leggermente, ha invece continuato a salire fortemente.

In altre parole, l’oro, quando dovrebbe scendere, scende poco rispetto alla salita del rendimento dei TIPS, e quando dovrebbe salire, sale sempre molto piu’ di quanto il rendimento dei TIPS scenda.

Insomma, che il rendimento dei TIPS salga o scenda, l’esito è sempre lo stesso: c’è ancora una correlazione inversa con l’oro, ma le due curve non corrono piu’ una vicino all’altra; al contrario, ogni movimento dei TIPS, in alto o in basso, non fa che aumentare il divario fra le due curve.

Ciò indica che l’oro, al netto delle salite e discese, si è rafforzato rispetto al rendimento dei TIPS, indicando una persistente sfiducia del mercato nei confronti del sistema monetario americano, non solo a causa della guerra ucraina, ma anche di fronte alle insolite politiche monetarie della Fed, al possibile avvento di un CBDC con possibili effetti socialmente distruttivi, alle politiche monetarie alternative dell’oriente del mondo, e cosi’ via: le ragioni di una forte incertezza certo non mancano…

E poi c’è anche una spiegazione banalmente “matematica” a questo cambio di paradigma.

Ogni anno, infatti, il valore totale dei titoli di stato statunitensi cresce molto più velocemente del valore totale della disponibilità di oro sul pianeta.

Il deficit fiscale degli Stati Uniti (la crescita del valore delle obbligazioni in circolazione) nel 2022 è stato di 1,38 trilioni di dollari, mentre il valore dell’oro estratto nello stesso anno è stato di appena 200 miliardi di dollari.

Prima o poi la correlazione tra TIPS e oro doveva tenere conto di questa enorme divergenza.

Dal 2011 al 2021 il debito federale degli Stati Uniti è raddoppiato, ma lo stock di oro estratto è cresciuto di appena il 17%.

Se torniamo al primo grafico, quindi, ci rendiamo conto che, alla luce di questa sproporzione di valore tra buoni del tesoro e oro estratto, la stretta, anche se inversa, vicinanza tra TIPS e oro dal 2011 al 2021 è sempre stata del tutto fuori dalla realtà.

Secondo il “vecchio” paradigma, l’oro avrebbe dovuto essere una copertura all’emissione dei buoni del tesoro. Ma, realisticamente parlando, come potrebbe un asset (l’oro) aumentato solo del 17%, a coprire correttamente i buoni del tesoro che nello stesso lasso di tempo sono aumentati del 50%?

Si ha l’impressione quindi che dal 2011 al 2021 la correlazione tra TIPS e oro abbia viaggiato secondo una metrica non realistica, ma convenzionale, basata su un vecchio pregiudizio (o una vecchia manipolazione delle quotazioni), piuttosto che spinta dalle reali esigenze del mercato.

Il fatto che ora questa correlazione poco realistica sia diventata una cosa del passato suggerisce quindi, non solo che la sfiducia nel dollaro è aumentata, come abbiamo detto, ma anche a mio avviso che il prezzo dell’oro non viene piu’ strettamente manipolato a ribasso come in passato e che quindi i suoi trend si avvicinano sempre piu’ ai movimenti reali del mercato.

Che l’oro non sia piu’ controllabile come prima è evidente anche dalla sempre piu’ scarsa correlazione col prezzo dell’argento (altro elemento nuovo nel panorama dei metalli preziosi).

L’argento infatti, piu’ facilmente manipolabile dell’oro, deve essere ancora selvaggiamente tenuto sotto pressione dalle élites perché c’è una cronica e drammatica mancanza di metallo fisico a copertura degli Etf legati a questo asset. Una scarsità che non riesce piu’ ad essere compensata e che quindi rischia ogni mese di far saltare le coperture dei titoli di borsa legati all’argento.

Per tale motivo, mentre l’oro ha ormai raggiunto stabilmente una quotazione media molto piu’ alta, rispetto ai suoi standard degli ultimi dieci anni, l’argento resta invece inchiodato alle vecchie quotazioni “minimaliste”.

Difficile dire se questa mancanza di controllo sul prezzo dell’oro da parte delle élites finanziarie sia un fatto intenzionale o un incidente di percorso (oppure qualcosa a metà tra le due opzioni).

Sta di fatto che il divario tra oro e tassi reali è il segnale evidente del ritorno di questo asset tra i protagonisti dell’economia globale, a fronte di un sistema finanziario che sta perdendo fiducia in se stesso.

Un gold standard per lo yuan? Forse fra cento anni…

Longsheng (Longji or Dragon's backbone) rice terraces near Guilin, Guanxi, China

Uno dei temi piu’ divertenti dei social complottisti è l’idea che Russia e Cina stiano creando delle valute interamente collateralizzate con l’oro. Una specie di gold standard del rublo e dello yuan.

E’ bene chiarire però che, per emettere una valuta gold standard, una banca centrale dovrebbe avere riserve di oro fisico di valore pari ad almeno il 50%-70% di tutta la valuta che intende emettere.

Vogliamo vedere se nel caso di Cina e Russia è davvero cosi’?

In Cina puoi convertire lo yuan in oro fisico, se fai trading di future sul petrolio greggio.

La Cina infatti nel marzo 2018 ha lanciato un contratto future in yuan sul petrolio, dando la possibilità a qualsiasi produttore di petrolio del mondo di vendere il proprio prodotto in yuan.

Ma, dato che la maggior parte dei produttori di petrolio non vuole accumulare grandi riserve di yuan, la Cina dà anche la possibilità di convertire immediatamente lo yuan in oro fisico.

Queste vendite di yuan in cambio di oro avvengono attraverso le borse dell’oro a Shanghai (il più grande mercato dell’oro fisico del mondo) e Hong Kong senza toccare le riserve ufficiali della Cina.

Quindi questa convertibilità dello yuan con l’oro è limitata ai proventi della vendita del petrolio effettuata in Cina e coinvolge le riserve di oro dei mercati liberi, non quelle della banca centrale cinese.

Al momento dunque, non ci risulta che chiunque possa andare in banca e scambiare yuan con oro.

Con le riserve auree attualmente pari al solo 3,5% delle disponibilità della banca centrale, semplicemente non ci sarebbe abbastanza oro per permettere una cosa del genere…

E la Russia?

Dopotutto, è il paese che vanta una delle maggiori quote di riserve auree detenute da una banca centrale, pari a circa il 20% delle riserve globali di oro.

Al momento, questi scambi riguardano beni di provenienza straniera che i Russi pagano direttamente in rubli (proprio come i Cinesi pagano in yuan il petrolio).

Anche qui, gli stranieri che vengono pagati in rubli non hanno interesse a mantenere questa valuta nelle loro riserve, perciò la cambiano subito in oro.

Ovviamente anche questi questi scambi avvengono sul mercato libero dell’oro e non riguardano le riserve auree della banca centrale russa.

La Russia infatti non è in grado di produrre beni e servizi competitivi o particolarmente ricercati nei mercati globali. Quindi, se convertisse rubli con le riserve auree della banca centrale, si ritroverebbe ad aver scambiato le sue scorte d’oro con un paniere di beni e servizi occidentali…. e il rublo sostenuto dall’oro non ci sarebbe più.

Ora, niente di tutto questo vuol dire che non valga la pena prestare attenzione agli sforzi della Cina e della Russia per minare lo status del dollaro USA come valuta di riserva globale.

Ma la possibilità che la creazione di un gold standard sia una componente importante di questo piano di detronizzazione del dollaro non ha alcuna base economica.

La corsa al credito: un’altra tappa dello spietato reset bancario americano

Six athletes running race

Le recenti crisi bancarie americane NON sono causate dal credito, come quelle del 2008.

In articoli precedenti (ad esempio qui) abbiamo spiegato le cause di questi default, perciò non ci dilunghiamo su questo. L’importante è capire che il credito non c’entra nulla.

Se si vuole davvero avere il polso della situazione e capire cosa sta succedendo nell’economia, la prima cosa da fare è abbandonare lo schema proposto sia dai media mainstream che dai media complottisti.

Chi ragiona con questo schema si aspetta che le politiche restrittive della Federal Reserve inneschino sofferenze tali nelle banche da costringerle a una stretta creditizia che alla fine strangolerà l’economia e porterà a una forte recessione.

Niente di piu’ sbagliato.

Al contrario, grazie agli aumenti dei tassi d’interesse, il credito è tornato a essere il business piu’ appetibile per una banca. Lo dimostrano gli ultimi bilanci trimestrali delle grandi banche (J.P. Morgan. Citigroup, Bank of America, Wells Fargo).

Gli interessi che queste grandi banche hanno guadagnato sui loro prestiti ha superato di gran lunga i costi sostenuti sui depositi dei loro clienti.

J.P. Morgan ad esempio ha riportato un reddito netto da interessi record di oltre $ 20 miliardi.

I ricavi delle quattro mega-banche USA sono tutti aumentati, mentre i loro profitti sono stati cosi’ incredibili da controbilanciare ampiamente gli accantonamenti per perdite su prestiti.

Del resto, una delle migliori prove che il credito (assieme ad altri servizi bancari) è diventato cosi’ appetibile è la corsa all’oro che si sta svolgendo tra banche e giganti high tech.

Giganti High Tech e grandi banche: iniziano le danze…

Tutti sappiamo che Amazon, Meta, Google, Apple e Microsoft hanno già creato propri sistemi di pagamento virtuale.

Il passo successivo è quello di offrire anche credito, attraverso carte di credito (finora ci sono arrivate Amazon e Apple) e poi offrire l’altro lato del sistema, cioè depositi a interessi (lo sta facendo Apple, che offrirà interessi al 4,15%, superiori a quelli di qualsiasi banca).

La differenza tra le grandi banche e i giganti high tech è che questi ultimi hanno il vantaggio di non avere in gestione dei depositi. La loro fonte di ricchezza infatti è la montagna di cash accantonato, non i depositi dei clienti (questi ultimi, poi, possono anche ritirare i loro risparmi da un giorno all’altro, come abbiamo visto).

In questa corsa all’oro, le banche e le società high tech sono impegnate in qualcosa che è a metà tra la rivalità senza esclusione di colpi e la collaborazione.

I servizi finanziari di Apple, ad esempio, sono in realtà creati e gestiti operativamente da Goldman-Sachs, mentre la carta di credito di Amazon è rilasciata in partnership con J.P.Morgan.

Quando possono, però, le grandi banche non esitano a fare fuori gli avversari, come nel caso emblematico della First Republic Bank.

Attenzione a questa vicenda, perché rivela molte cose…

La lotta all’ultimo sangue tra i servizi finanziari non è certo finita…

Nel primo trimestre di quest’anno, i depositanti hanno ritirato dalla First Republic Bank 102 miliardi di dollari. E questo nonostante la banca avesse in precedenza preso in prestito $ 92 miliardi dalla Federal Reserve e altri $ 30 miliardi da 11 banche più grandi.

La Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) si è affrettata a trovare un acquirente durante il fine settimana nella speranza di non dover costringere la Fed a un ennesimo costoso salvataggio.

J.P. Morgan, “coraggiosamente” (si fa per dire) si è fatta avanti per acquisire i $ 173 miliardi di prestiti, $ 30 miliardi di titoli e $ 92 miliardi di depositi della First Republic con la modica spesa di soli $ 10,6 miliardi. L’accordo ha come ulteriore vantaggio che la FDIC coprirà l’80% di tutte le perdite su crediti che JP Morgan potrebbe soffrire a causa dei crediti inesigibili della First Republic nei primi sette anni di mutui e nei primi cinque anni di prestiti commerciali.

Insomma, quello della J.P. Morgan non è stato proprio un “sacrificarsi per la causa”…

Ma c’è di piu’…

Si, perché in condizioni di mercato “normali”, J.P. Morgan, per evidenti motivi di antitrust, non sarebbe mai stata autorizzata ad acquisire First Republic. Il solo motivo per cui la Federal Trade Commission ha permesso “a malincuore” questa acquisizione (e anche i ricchi e sfacciati bonus concessi) è che siamo in tempi di “emergenza” (ormai abbiamo imparato quanto sono preziose queste “emergenze” per aggirare la legge).

Parliamo della stessa Federal Deposit Insurance Corporation che proprio in questi giorni ha inviato un ordine di consenso (una notifica) alla Cross River Bank (la banca che osa fornire assistenza alle transazioni cripto-fiat per VISA e Coinbase) sostenendo che la banca è impegnata in pratiche di prestito “non sicure e non solide” che andranno sanate, pena la confisca, come avvenuto per la Silvergate Bank.

Due pesi e due misure…che fanno capire da che parte propenda il favore della FDIC in questa lotta senza quartiere….

Una lotta nella quale la J.P. Morgan sembra agire nella massima impunità.

Ricordiamo, come detto in un articolo precedente, che secondo alcuni media (ad esempio The Information) i bank run che hanno portato al fallimento una banca solida come Silicon Valley Bank sono stati probabilmente pilotati dalla stessa J.P. Morgan.

Bisogna capire che l’innesco di questi bank run non avvengono a causa di utenti retail (semplici cittadini) che per qualche ragione iniziano a ripulire i loro depositi dalle banche. In realtà sono i principali clienti di queste banche (soprattutto grandi aziende o singole personalità multimilionarie) a iniziare queste fughe dai depositi, che solo in seguito vengono imitati dai clienti retail.

Le banche colpite da questi fallimenti pilotati, hanno tutte le stesse caratteristiche: gestiscono principalmente le società, non i semplici cittadini.

E sono proprio queste società l’oggetto del desiderio delle grandi banche sistemiche, J.P.Morgan in testa, che probabilmente ne riescono a contattare le alte dirigenze, alle quali promettono condizioni migliori, oppure le fanno credere che la loro banca stia per fallire, o comunque le convincono in qualche modo a spostare i loro capitali fuori dalla banca.

Come dice questo articolo, questa “concorrenza del credito” e degli altri servizi bancari tra banche, fintech e high tech raggiungerà livelli ancora piu’ frenetici nei prossimi mesi e anni.

Tutto per la conquista del predominio nei servizi bancari offerti alle grandi società e ai clienti multimilionari.

E fra i servizi bancari, come abbiamo detto, il credito è il piu’ appetibile, perché permette di avere enormi profitti sotto forma di interessi.

In un contesto del genere, come si può pensare che a un certo punto le banche si ritirino dalla lotta e non vogliano piu’ fornire servizi di credito all’economia?

Del resto, basta uno sguardo al mondo dei mutui per capire la situazione…

Il mercato dei mutui dimostra che in America il credito si espanderà e non ci sarà alcun “credit crunch”

Il mercato dei prestiti ipotecari non è legato direttamente ai tassi di interesse decisi dalla Fed. Ci sono altre forze in gioco, tra cui l’offerta di nuovi immobili e la domanda da parte dei potenziali acquirenti.

Ecco perché, anche se i tassi di interesse rimangono ancora elevati, la disponibilità dei mutui sta migliorando.

In altre parole, in America sta diventando un po’ più facile per aziende e cittadini ottenerne uno…

Secondo l’ultimo Mortgage Credit Availability Index, un rapporto della Mortgage Bankers Association che analizza i dati di ICE Mortgage Technology, la disponibilità di credito ipotecario negli Stati Uniti è aumentata nel marzo 2023.

Siamo ancora ai primi, timidi segnali che le banche stanno diventando più disposte a prestare.

Pungolate dalla concorrenza delle società high tech con la loro quasi illimitata liquidità, le banche non possono starsene in disparte ancora per molto, col rischio di perdere la corsa all’oro del credito e degli altri servizi finanziari.

E come abbiamo visto, per vincere questa corsa, le banche, quando possono schiacciare un concorrente, lo fanno, oppure, al contrario, stipulano accordi e joint ventures con gli avversari che non hanno la forza di eliminare…

Risultato: piu’ credito all’economia = piu’ liquidità = aumento dei consumi = espansione economica

Dal punto di vista macroeconomico, l’aspetto piu’ importante di tutto questo discorso è che i giganti high tech inizieranno a prestare denaro anche contro una frazione delle loro folli riserve di liquidità, aggiungendo decine, se non centinaia di miliardi di dollari di credito al consumo.

E le banche, dal canto loro, continueranno ad abbassare i loro standard di prestito, rendendo nuovamente accessibile il credito e quindi aumentando ulteriormente la quantità di credito nel sistema.

Tutti i default e i bank run, che accadono e continueranno forse a verificarsi nel corso di questo processo, sono solo gli effetti di questa competizione selvaggia, non sono il sintomo di una qualche mancanza di liquidità nel sistema che inizia a far saltare gli ingranaggi.

Alla fine di questa lotta ci saranno molti caduti: diverse banche di medie dimensioni, alcuni settori economici già oggi divenuti marginali, come i department stores e gli immobili commerciali, diversi milioni di semplici cittadini, professionisti e dipendenti impiegati in questi settori, ne lasceranno le penne.

Ma ciò non toglie che il risultato finale sarà un’economia con molti settori “superstiti” in ottima salute, che sapranno sfruttare la liquidità che, sotto forma di credito, sarà entrata nel sistema.

Del resto, già adesso basta consultare i risultati delle pubblicazioni dei bilanci trimestrali di aprile per capire quali saranno i settori vincenti:

American Express ha affermato che la spesa dei consumatori rimane resiliente, Taiwan Semiconductor e Lam Research si aspettano che il mercato dei semiconduttori rimbalzerà nella seconda metà del 2023, mentre Genuine Parts Company e AutoNation hanno riportato che la domanda di ricambi auto rimane forte…e cosi’ via…

Per una volta, sono d’accordo con un’esponente della Federal Reserve, per la precisione, il presidente della Federal Reserve di St. Louis James Bullard , il quale ha dichiarato a Reuters che “Wall Street è molto convinta che ci sarà una recessione tra sei mesi o qualcosa del genere, ma non è proprio il modo in cui si legge un’espansione come questa.”

Che dire dei soldi della pandemia ancora da spendere, sia a livello statale e locale che a livello di singola famiglia?” continua Bullard.

I trilioni di dollari che il governo ha distribuito direttamente ai consumatori, alle imprese e ai governi statali e locali sono ancora nel sistema. Stati come la California stanno accumulando grandi deficit su base contabile, ma sono ancora seduti su pile di contanti della pandemia, e li stanno spendendo“.

I consumatori sono inondati di contanti.“, riprende Bullard, “Puoi vederlo nei depositi presso le banche, che avevano raggiunto i $ 18 trilioni alla fine del 2021 e ora sono scesi appena a $ 17,4 trilioni, che è ancora una somma enorme. Puoi vederlo nei capitali dei fondi del mercato monetario: tutti aumentati vertiginosamente. I consumatori hanno anche parcheggiato molto denaro in buoni del tesoro. Molti di questi strumenti pagano dal 4% al 5% di interessi.(…)”.

Insomma, non proprio la crisi di credito e di liquidità che molti ancora si aspettano…

Il piano segreto della Fed sul mercato monetario. Parte seconda

Dopo una fase di sviluppo durata quasi un decennio, mancano pochi mesi all’implementazione da parte della Federal Reserve di una nuova infrastruttura di transazioni in tempo reale nota come FedNow.

L’ultima notizia è che vedremo l’impiego di questo nuovo sistema tra maggio-luglio.

Il sistema e i suoi vantaggi sono semplici.

Le banche che faranno parte della rete FedNow potranno inviare/ricevere denaro in cambio di buoni del tesoro in pochi secondi con regolamento quasi istantaneo.

La maggior parte dei media sta trattando questo argomento nella prospettiva di un possibile dollaro digitale (CBDC).

In realtà, questo nuovo sistema potrebbe avere degli usi molto piu’ concreti e immediati di un CBDC.

Ad esempio, in caso di bank run bancari, FedNow potrebbe permettere istantanee iniezioni di liquidità da parte della Fed a favore delle banche in difficoltà, annullando in tempo reale gli effetti distruttivi di qualsiasi bank run, non importa di quali dimensioni.

Piu’ importanti però sono alcuni effetti a lungo termine di FedNow.

Per capire di cosa si tratta, dobbiamo tornare a parlare dei buoni del tesoro USA, strettamente correlati con questa possibile implementazione, continuando il discorso della Parte prima di questo articolo.

Nell’articolo precedente infatti avevamo scoperto uno strano afflusso di enormi somme istituzionali dagli anni ’70 a oggi nel mercato monetario (buoni del tesoro, in pratica), che sta creando, soprattutto negli ultimi 5 anni, una capitalizzazione crescente e stabile in questi titoli, senza alcun evidente scopo di protezione dai rischi o di investimento.

Non sappiamo con certezza lo scopo di questa operazione a lungo termine, ma in questo articolo cercheremo di fornire un contesto in cui questo fenomeno potrebbe avere senso.

La creazione di buoni del tesoro a tasso fisso

Uno dei due strumenti di salvataggio che la Fed ha messo in campo ultimamente è il Bank Term Funding Program, che prevede prestiti di liquidità alle banche in difficoltà in cambio di buoni del tesoro (Treasury) valutati alla pari, non al valore di mercato.

Dal momento che in America diverse banche di media entità continuano a marciare sull’orlo della bancarotta, la Fed sta utilizzando a pieno regime questo strumento di salvataggio, che la costringe a incamerare nel proprio bilancio centinaia di miliardi ogni mese in buoni del tesoro usati come collaterale dei prestiti di salvataggio.

In pratica, la Fed è impegnata in un nuovo QE, anche se in modo non ufficiale.

Tuttavia, a differenza dei QE precedenti, che avvenivano in un contesto di tassi d’interesse quasi a zero, ora queste cifre colossali vengono prestate mentre i tassi d’interesse sono molto alti.

Ecco il motivo per cui i prestiti avvengono con uno scambio di Treasury alla pari, cioè non al prezzo (e al tasso d’interesse) di mercato, ma a un prezzo e tasso nominali.

In pratica, la Fed sta essenzialmente fissando il prezzo (e il tasso d’interesse) del debito sovrano per evitare che queste operazioni di salvataggio portino alle stelle i rendimenti di questi titoli, mandando in bancarotta il governo che deve pagare gli interessi su questi titoli.

Lo scopo piu’ evidente di questi insoliti buoni del tesoro a tasso fisso è perciò proteggere il governo dalla bancarotta.

Tuttavia la Fed potrebbe anche usare questi buoni a tasso fisso per altri scopi.

Vediamone un paio nei prossimi paragrafi…

Come FedNow potrebbe promuovere lo “staking” dei buoni del tesoro

FedNow potrebbe essere utilizzato dalla banca centrale per trasformare i buoni del tesoro a tasso fisso in un asset da investimento in competizione con altri piu’ famosi, come le borse, l’oro o le cripto.

Come?

La Fed potrebbe instaurare degli scambi regolari e permanenti di denaro contro buoni del tesoro a prezzo e tasso fisso, questa volta non con le banche di media grandezza, ma con le grandi banche sistemiche, sempre pronte ad affiancare la banca centrale nelle sue manovre piu’ ardite.

In questo modo incamererebbe nel suo bilancio questo genere di titoli “garantiti” che a sua volta potrebbe offrire sul mercato attraverso FedNow.

I buoni del tesoro verrebbero cosi’ trasformati nell’investimento ideale: costanti nella performance, con rendimenti sempre adeguati all’inflazione e garantiti dallo stato.

Molti investitori, soprattutto se scoraggiati con opportune campagne mediatiche e giudiziarie dall’uso di altre forme di investimento dipinte come rischiose o inaffidabili, potrebbero trovare appetibile questa nuova forma di asset “garantito”.

Si tratta comunque di una semplice ipotesi, come quest’altra che descrivero’ nel paragrafo seguente…

La Fed sta creando a tavolino un’economia a inflazione controllata?

Nel 2018, la Fed tento’ una politica monetaria restrittiva simile a quella attuale, ma in scala molto piu’ ridotta, con la quale riusci’ ad aumentare i rendimenti dei fondi del mercato monetario e dei buoni del Tesoro di appena il 2%.

Ora è del tutto diverso: non possiamo negare infatti che stavolta l’impegno della Fed e del governo nel portare l’inasprimento monetario alle sue estreme conseguenze sembra inarrestabile.

Se l’inasprimento monetario del 2018 era chiaramente una breve parentesi nel lungo ciclo espansivo del dollaro, qui potremmo essere di fronte a un programma a lungo termine con obiettivi del tutto diversi da quelli di allora.

Se la Fed volesse al tempo stesso trasformare il dollaro in una valuta dotata di valore intrinseco (o almeno, con un rendimento implicito garantito) come abbiamo ipotizzato nel precedente paragrafo, potrebbe farlo senza alzare troppo i tassi d’interesse e senza innescare una recessione?

A mio parere la Fed potrebbe tentare questo esperimento.

E per farlo dovrebbe:

-concludere l’attuale ciclo di rialzo dei tassi, senza però iniziare un ciclo opposto di ritorno a tassi a zero

-continuare l’immissione di liquidità mirata in cambio di buoni del tesoro a tasso fisso

-aspettare e vedere cosa succede…

E’ possibile che queste semplici mosse riescano a sostenere i consumi e quindi a scongiurare una recessione.

Come?

Per i consumatori con migliaia di miliardi di dollari investiti in risparmi, conti del mercato monetario e buoni del tesoro che ora offrono rendimenti piu’ alti, l’attuale politica monetaria della Fed inizia a generare un vero flusso di cassa per la prima volta in 14 anni.

Avendo nuovamente dei soldi freschi generati dai rendimenti, queste persone potrebbero essere spinte a riprendere una nuova ondata di consumi (e per la verità, finora i consumi in America non si sono mai indeboliti, anche se nessuno sa spiegarsi perché…).

Certo, sarebbe una ripresa dei consumi piu’ moderata da quella che verrebbe generata da un QE “tradizionale”, ma sarebbe sufficiente a confondere le acque nei dati trimestrali sulla recessione, giustificando un eventuale mantenimento dei tassi dei buoni del tesoro in una soglia media piu’ alta rispetto al passato.

In questo modo, la Fed avrebbe creato un nuovo standard economico basato su tassi d’interesse non piu’ a zero, ma nemmeno troppo alti, mantenuti entro un range costante che sostenga l’economia e i consumi.

E al centro di questo sistema ci sarebbero i buoni del tesoro…

Quei buoni del tesoro che, come abbiamo visto nell’articolo precedente, istituzioni e multinazionali stanno accumulando da 5 anni a questa parte

Quei buoni del tesoro che con gli ultimi strumenti di salvataggio per le banche hanno cambiato pelle e sono diventati asset a rendimento fisso “garantito”.

Solo il tempo ci dirà se una o entrambe le nostre ipotesi (staking dei buoni del tesoro e inflazione perpetua) si avvereranno; anche perché l’introduzione di buoni del tesoro a tasso fisso è un compito molto complesso.

Non dobbiamo dimenticare che i buoni del tesoro sono il collaterale privilegiato delle transazioni fra banche centrali, fra banche private e fra aziende, in una rete capillare costruita pazientemente nei decenni che serve a mantenere la supremazia del dollaro a dispetto delle fluttuazioni della bilancia commerciale americana.

FedNow non è uno strumento capace di integrarsi in questo complesso sistema.

Inoltre, gli Stati Uniti non possono certo costringere altri paesi a comprare buoni del tesoro a un prezzo e a un interesse fisso deciso dalla banca centrale.

Per non parlare del fatto che oggi i buoni del tesoro sono detenuti anche nelle banche centrali dei paesi “nemici”, come la Cina.

La nostra ipotesi quindi implicherebbe la risoluzione di tutti questi aspetti, non certo semplici da affrontare.

D’altro canto però, vi sono segni sempre piu’ evidenti che questo ciclo di rialzo dei tassi della Fed sia diverso da quelli del passato.

Sembra che la Fed voglia superare la tradizionale alternanza di QT-QE e che quindi in futuro potrebbe non esserci un QE o un “pivot” come si dice in gergo, ma piuttosto una nuova normalità basata su parametri inediti.

Staremo a vedere….

Il piano segreto della Fed sul mercato monetario. Parte prima

Ormai lo sappiamo tutti: in questo periodo molti capitali stanno entrando nei fondi monetari o direttamente nei buoni del tesoro, specialmente quelli a breve scadenza.

Ma questo fenomeno è molto diverso da come lo immaginiamo.

Siamo abituati a pensare che, quando le cose vanno male, gli investitori scappano dagli asset piu’ rischiosi per rifugiarsi in questi titoli, che sono praticamente quasi simili a denaro e quindi poco problematici.

Al contrario, quando le cose vanno bene (ad esempio, quando la Fed riprende un QE) gli investitori lasciano i buoni del tesoro per tornare nuovamente nei mercati piu’ rischiosi.

Tutti siamo convinti che il mercato monetario funziona cosi’, vero?

Anch’io ne ero convinto. Per questo sono letteralmente saltato sulla sedia davanti a questo grafico:

Come si vede, anche se ci sono effettivamente dei picchi nei momenti in cui c’è una crisi o un cambio di politica monetaria (i picchi sono evidenziati dalle scritte in rosso), in realtà l’aumento di capitalizzazione in questo mercato è costante.

In altre parole, non è vero che i capitali entrano solo nei momenti di crisi per poi uscirne quando il peggio è passato. Se cosi’ fosse, avremmo un grafico piatto con dei grandi picchi, non certo questa curva in continuo aumento dagli anni ’70 a oggi

Il grafico mostra chiaramente che c’è un flusso costante di capitali in questo mercato.

In altre parole, c’è una parte consistente di capitali che quando entra nel mercato monetario non ne esce piu’ per molti anni!

Esiste quindi un bull trend di lungo termine che nessuno finora aveva notato.

E questo bull trend non si è arrestato nemmeno in corrispondenza dei forti cambiamenti di politica monetaria della Federal Reserve.

Tutti noi ci immaginiamo che se la Fed ad esempio iniziasse un QE domani, subito gli investitori uscirebbero dal mercato monetario per entrare in altri mercati piu’ rischiosi.

Il nostro grafico invece ci dice che questi flussi in uscita sarebbero molto inferiori di quanto pensiamo, perché una larga parte di capitali resterebbe in quel mercato.

E il motivo di ciò è che gran parte di questi capitali non proviene piu’ da investitori, fondi comuni, fondi pensione “normali” che disinvestono quando passa la crisi.

Da dove vengono allora questi soldi?

Il mistero inizia a svelarsi guardando questo grafico:

Qui si vede chiaramente che dal 2017 in poi c’è stato un cambiamento radicale degli strumenti che consentono l’entrata in questi titoli (si vede dal cambio di colore: la tonalità azzurra inizia a dominare nel grafico a partire da quella data).

Ed è cosi’ che quindi negli ultimi 5 anni la maggior parte del denaro che entra nel mercato monetario non passa piu’ in gran parte attraverso i canali piu’ ovvi, cioè attraverso le banche, i fondi pensione, Moneyfarm o qualsiasi altra modalità a cui siamo abituati.

Ormai il grosso dei capitali entra attraverso uno strumento specifico, ossia particolari fondi governativi (le bande azzurre e quelle grigie, appunto), che generalmente hanno soglie minime di ingresso molto alte (da $ 100.000 a $ 1 milione) difficilmente affrontabili da parte degli investitori “normali”.

Questi fondi infatti vengono usati dalle grandi multinazionali e dalle istituzioni, la cui sovraesposizione verso il mercato monetario non può essere un semplice investimento fatto in risposta a determinate condizioni di mercato.

Se cosi’ fosse, non avremmo quel grafico che avviamo visto all’inizio, dove appare chiaramente che i capitali istituzionali e delle multinazionali entrano stabilmente nel mercato monetario e non ne escono piu’ a prescindere dai mercati e dai trend economici.

Allora, qual è lo scopo di questo continuo afflusso di capitali?

Proveremo a fare qualche ipotesi nella Seconda Parte….

Lo yuan e il gettone telefonico: perché il dollaro è ancora importante

In un post su telegram del 4 aprile avevo mostrato questo grafico:

nel quale è evidente la relativa importanza delle diverse valute mondiali come valute di riserva.

Nel post dicevo anche che per sapere se e quando lo yuan (nel grafico RMB, la curva in verde in basso) starà davvero per sostituire o affiancare il dollaro come valuta mondiale dovremo attendere il momento in cui almeno una materia prima o un bene qualsiasi di largo consumo verrà prezzato ufficialmente in yuan.

Un particolare curioso è che i social complottisti, per i quali questo evento deve avvenire da un momento all’altro, si sono persi un pezzo importante di informazione che potrebbe alimentare meglio queste attese…e nel frattempo aumenterebbe certamente il numero dei loro lettori.

Ma a questo rimediamo subito …

La notizia clamorosa è che India e Russia, nei loro scambi di petrolio in valuta locale e non in dollari, hanno alzato l’asticella decidendo di non usare piu’ il prezzo ufficiale fissato in qualche borsa occidentale, ma quello fissato dalla piazza di Dubai…!

Fantastico! E’ dunque arrivato il momento tanto atteso?…

Ehm, purtroppo no, perché anche Dubai fissa il prezzo in dollari…e lo fa mediante la società americana S&P Platts, che appartiene alla ben nota S&P Global.

Certo, il prezzo di Dubai viene influenzato molto di piu’ dagli scambi asiatici che da quelli occidentali, ma qui non stiamo discutendo la quotazione del greggio, bensi’ il dominio globale di una valuta che non sia il dollaro.

E da questo punto di vista, nemmeno Dubai sembra intenzionata a fare il passo tanto atteso dai complottisti…

Nel frattempo, approfitto dell’occasione per spiegare meglio il motivo per cui lo yuan, il rublo o qualsiasi altra valuta non possono al momento diventare delle valute globali come il dollaro, pur essendo implicate in alcuni scambi transazionali.

E a questo scopo, userò come esempio i gettoni telefonici dell’immagine di copertina…

Chi ha un pò di anni ricorderà certamente che prima dell’invenzione dei cellulari c’erano le cabine telefoniche, nelle quali il pagamento delle chiamate non avveniva direttamente con le lire di metallo, ma con dei gettoni (quelli appunto in copertina).

In pratica, per chiamare qualcuno da una cabina dovevi prima comprare con le tue lire dei gettoni e poi dovevi introdurre quei gettoni nel telefono per avviare la chiamata.

Il punto è che, nonostante quei gettoni siano siano stati convertibili a prezzo fisso con le lire per due decenni, non hanno mai preso il posto delle lire stesse.

Allo stesso modo avviene con i rubli, le rupie, i yuan o qualsiasi altra valuta usata negli scambi internazionali.

Infatti, se la Russia vende qualcosa all’India pagandola in rupie, deve prima comprare queste rupie scambiandole in dollari.

E quando l’India compra qualcosa dalla Russia pagandola in rubli, deve prima comprare i rubli pagandoli in dollari.

Inoltre, le banche centrali russa e indiana che hanno incamerato, rispettivamente, rupie e rubli nelle loro rispettive vendite, come faranno a comprare qualcosa dalla Cina pagandola in yuan? Semplice: convertiranno le rupie e i rubli in dollari, e con quei dollari compreranno gli yuan.

Ora è piu’ chiaro il quadro?

In pratica, delle banche centrali russia indiana e cinese che abbiamo considerato, nessuna di queste ha messo in riserva rubli, yuan o rupie. Infatti, per passare da una valuta all’altra è stato necessario usare dollari.

Quindi, quale sarà la valuta che dovranno tenere in riserva per fare i loro commerci in valute nazionali? Ovviamente, i dollari!

In conclusione, in tutti questi scambi internazionali, le valute locali sono, rispetto al dollaro, come il vecchio gettone telefonico rispetto alla lira

Le varie valute possono passare infinte volte da una mano all’altra in tutti gli scambi commerciali del mondo, ma finché dovranno essere comprate a loro volta in dollari, al di fuori dei loro confini nazionali saranno sempre una merce e non una valuta

Capire il mercato immobiliare USA

Uno dei fattori indispensabili per capire l’andamento delle borse è il mercato immobiliare.

La correlazione tra il mercato immobiliare e le borse non viene mai sottolineata abbastanza.

In realtà, specialmente per il mercato americano, esiste una stretta relazione, non solo nel lungo termine, ma anche nei trend di medio termine, tra gli immobili e le borse.

Un chiaro esempio di questo è la situazione attuale del mercato azionario, che descriviamo ogni giorno sul nostro canale telegram.

Chi segue il nostro canale sa che le borse americane sono come “congelate”: ad aprile, dopo una breve salita delle quotazioni, tutti i trend si sono azzerati.

Ma la stessa cosa sta accadendo proprio ora nel mercato immobiliare americano. Anche questo è al momento “congelato”.

E’ quindi il caso di dare un’occhiata ravvicinata al settore immobiliare per capire meglio le borse.

La dinamica dei mutui e delle banche. Siamo davvero sull’orlo di un nuovo 2008?

Il primo passo per approfondire in modo scientifico e realistico questo tema, è sgombrare la mente dalla teoria strampalata, oggi molto in voga, secondo cui c’è il rischio di un default bancario e immobiliare in stile crisi del 2008.

Le condizioni di oggi sono del tutto diverse da quelle del 2008.

Oggi, tutto ciò che sta accadendo è un effetto indesiderato della politca della Federal Reserve, che ha aumentato i tassi troppo in fretta e con troppa forza.

Due anni fa, gli erogatori di mutui a tasso variabile sapevano che la Fed avrebbe presto aumentato i tassi d’interesse e avevano calcolato di poter beneficiare di questa nuova politica.
Infatti, secondo i loro calcoli, l’aumento dei tassi a breve termine avrebbe spinto verso l’alto i tassi variabili dei loro mutui, incrementando quindi i loro rendimento e proteggendo anche il valore del prestito.

Cosa è andato storto?

Questo calcolo sarebbe stato corretto se la Fed si fosse limitata ad aumentare i tassi al massimo di 200 punti base, per poi fare marcia indietro riabbassandoli di nuovo, come aveva fatto nel 2018.

Nessuno certo si aspettava che i tassi sarebbero aumentati di ben 475 punti base, creando quella recessione del 2022 (ignorata dai media, come abbiamo già detto altrove) che ha fatto svuotare gli uffici, rendendo inadempienti i mutuatari di questi immobili.

Quanto poi alle banche, bisogna considerare un’altra dinamica non sempre riportata con chiarezza dai media.

Molti analisti sono allarmati dall’esposizione delle banche di media grandezza americane su questi mutui legati agli uffici.

In realtà, come si apprende da questo articolo, le banche posseggono solo il 45% di questo debito.

Ben prima che i media capissero che la Fed aveva intenzione di schiantare l’economia con rialzi dei tassi piu’ alti di quanto ci si aspettava, le banche avevano saggiamente cartolarizzato questi mutui, vendendoli ad altre entità, come le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione, isituti di credito non bancari come società di mutui, REIT ipotecari o società di PE.

In realtà i mutui sugli immobili commerciali sono ancora una bomba a orologeria e infatti stanno continuando a provocare dei default in America, ma negli istituti non bancari. Questi default fanno meno notizia, quindi molti investitori non ne sono al corrente e aspettano ancora il grande default di qualche banca sistemica che finalmente butti giu’ tutto.

Un’attesa che non si realizzerà mai…

Il cortocircuito tra domanda e offerta di immobili che congela il mercato

Dopo questa premessa, affrontiamo il mercato immobiliare dal punto di vista classico, ossia confrontando le dinamiche della domanda e dell’offerta e come queste si riflettono sui prezzi.

La scarsità di immobili in America è un trend che dura da anni:

La scarsità dell’offerta dovrebbe teoricamente far alzare i prezzi degli immobili.

Tuttavia, l’aumento dei mutui limita anche la domanda, controbilanciando l’effetto rialzista sui prezzi.

Questi, in poche parole, sono i due trend opposti che stanno congelando il mercato immobiliare.

Ma all’interno di questa situazione di stallo, delle dinamiche molto insolite  stanno facendo pendere leggermente il piatto della bilancia sulla discesa dei prezzi, piuttosto che su un loro congelamento.

Vediamo di cosa si tratta.

Perché negli USA i prezzi delle case scendono

Molti media dicono che l’aumento dei mutui rende piu’ difficile l’acquisto di un immobile.

Tuttavia questo fattore è controbilanciato dalla discesa dei prezzi degli immobili che al contrario favorisce l’acquisto.

Complessivamente, il prezzo medio degli immobili è infatti sceso del 9,2% rispetto al picco stagionale di giugno 2022.

La stranezza sta nel fatto che questa discesa dei prezzi avviene nonostante il fatto che, come abbiamo detto prima, l’offerta di immobili nel mercato americano sia in discesa da anni.

In realtà, però questa riduzione dell’offerta non è uniforme e le sue stranezze, oltre a far scendere i prezzi degli immobili, almeno nel medio periodo, stanno risvegliando i titoli di borsa legati all’immobiliare.

E qui veniamo alla parte piu’ interessante per chi investe…

L’offerta di immobili sul mercato si riduce, anzi no…

Questo articolo di Bloomberg ci spiega perché la normale dinamica di domanda e offerta nel mercato immobiliare USA sta deviando dai suoi prevedibili binari.

Tutto inizia, come spiega l’articolo, con i proprietari di case che godono di vecchi mutui a tasso fisso pagando rate molto basse rispetto a quelle attuali.

Questi proprietari non si sognano certo di vendere ora i loro immobili, perché in tal caso dovrebbero pagare molto di più per comprare una nuova casa e poi, ovviamente, il loro nuovo tasso ipotecario salirebbe alle stelle.

Ora, questa dinamica limita ulteriormente la disponibilità delle abitazioni e quindi dovrebbe far alzare i prezzi.

Invece no…

La scomparsa dal mercato degli immobili esistenti si sta traducendo in un enorme vantaggio per i costruttori di case che mettono in vendita nuovi immobili.

Il grafico a lungo termine della percentuale delle nuove case su tutte le case unifamiliari disponibili negli Stati Uniti mostra una crescita significativa delle nuove costruzioni: a febbraio 2020 erano il 20,3%, mentre a febbraio 2023 sono al 33,4%:

Questa percentuale di 1/3 di nuove case sul mercato è insolita, perché è più del doppio dei livelli normali.

Per questa ragione, nonostante il mercato complessivamente sia congelato, questa parziale salita dell’offerta di case, nel contesto di una domanda ancora bassa dovuta ai mutui, sta facendo scendere i prezzi:

Nel grafico, la curva rossa indica appunto la discesa dei prezzi, mentre la linea blu indica l’inflazione, con la freccia a destra che mostra di quanto dovrebbe scendere l’inflazione a causa della discesa dei prezzi immobiliari.

Nuovi immobili e nuovi acquisti in borsa: due fenomeni correlati

Esattamente come i costruttori, che continuano a edificare anticipando una domanda di immobili che ancora non c’è, anche gli investitori stanno entrando nei titoli di borsa immobiliari prima ancora che il settore inizi a rimettere in moto le vendite.

Una visione riassuntiva di questo fenomeno ce la fornisce l’Etf iShares Home Construction ETF (ITB), che comprende i maggiori titoli di borsa legati alle aziende di costruzioni:

Il grafico mostra all’estrema destra l’impennata parabolica del titolo ad aprile (curva nera), dovuta proprio a questa insolita dinamica.

Ma è interessante notare che in realtà l’Etf è in salita già dalla fine del 2022. Si tratta dunque di un trend di medio periodo, non di una singola fiammata di entusiasmo.

Infatti le borse, come i costruttori di case, scommettono sulla ripresa della domanda di immobili, che a sua volta può essere innescata solo da rate di mutui piu’ basse.

In sostanza, sia i costruttori che le borse stanno anticipando la discesa dei tassi dei mutui.

Questo gioco d’anticipo si basa sulle seguenti convinzioni:

…prima o poi la Fed invertirà la sua politica monetaria restrittiva

…la massa monetaria in attesa di rientrare sui mercati è ancora enorme

…il mercato immobiliare non è in crisi economica, ma è solo congelato

…il mercato immobiliare si avvantaggia prima e piu’ di altri da una inversione di politica monetaria della Fed

…ed è anche il meglio posizionato in borsa per approfittare del voltafaccia della Fed (nel senso che le quotazioni in borsa sono scese come se il mercato fosse in crisi, mentre in realtà è solo in standby: la classica situazione di basso rischio/alta probabilità di rendimento).

Queste convinzioni potranno o meno essere confermate dai fatti, ma per ora il punto principale è che, in base a tutti questi fenomeni che abbiamo descritto, è evidente che non siamo in una bolla immobiliare pronta a scoppiare. Tutt’altro…

Questo grafico illustra bene la situazione reale:

Come si vede, le vendite di immobili hanno raggiunto a gennaio un livello che coincide con i minimi storici precedenti.

Nei casi del passato, il trend ha raggiunto il minimo quando è sceso a un ritmo annuale di vendite di circa 3,5-4 milioni di immobili. Nel ciclo attuale, abbiamo raggiunto questo minimo a gennaio.

Da allora, abbiamo registrato un forte rimbalzo sulle vendite.

Infatti, come si vede dal grafico, anche se c’è stata una momentanea diminuzione a marzo, le vendite restano su una solida tendenza al rialzo rispetto ai minimi di gennaio.

Storicamente, questo rimbalzo sembra coerente con l’inizio di una nuova ripresa del mercato immobiliare, perché è esattamente ciò che avvenne alla fine della discesa del mercato immobiliare nel 2007/08 e dopo la pandemia.

Riassumendo quindi: negli USA i prezzi sono in discesa, l’offerta è bassa da decenni (in realtà, non si è mai ripresa dalla crisi del 2008) e non c’è alcuna frenesia negli acquisti di immobili, come ci si aspetterebbe in una bolla, ma al contrario abbiamo una timida ripresa delle vendite dopo una lunga e forte discesa.

Perciò, continuo a ribadire che chi si aspetta una crisi del tipo 2008 sta ignorando completamente la situazione e dovrebbe documentarsi, prima di fare delle analisi.

Come investire in questo contesto

Chi volesse investire nel mercato immobiliare USA in questo momento, dovrebbe tenere conto di un’unica cosa: il rischio di avere una lunga fase di lateralità.

Tornando infatti all’esempio del nostro Etf, guardiamo il suo RSI:

Un forte ipercomprato può anticipare una discesa del titolo (e dei titoli immobiliari in generale), anche se non necessariamente in tempi brevi.

Quindi se non si vogliono sopportare lunghe attese con le quotazioni in perdita, tanto vale entrare nei titoli immobiliari quando la discesa sarà già avvenuta.

A parte queste considerazioni di breve termine, il mercato immobiliare è senz’altro uno dei migliori investimenti a lungo termine nel mercato USA.

L’importanza del mercato immobiliare per chi investe in borsa

Tornando al nostro discorso generale, il mercato immobiliare è l’immagine emblematica di tutta l’economia americana. E ora lo è piu’ che mai.

Guardando da vicino le sue dinamiche, ci si rende conto che attualmente le politiche restrittive monetarie della Fed hanno innescato dei trend contraddittori nell’economia che si riflettono fedelmente anche nel mercato immobiliare.

Molti analisti semplicemente non sono abituati a queste insolite dinamiche e le interpretano con il metro del decennio precedente, che era basato su politiche monetarie opposte a quelle attuali.

Ciò che non si comprende viene etichettato come qualcosa di pericoloso, mentre invece è semplicemente diverso.

Infatti, se ci si attiene ai dati, senza lasciarsi influenzare dai media, si comprende che l’economia americana non sta andando in un’unica direzione, ossia quella della recessione in senso classico, ma è come presa da tanti trend diversi che aspettano di emergere dal rumore di fondo e di imporsi come protagonisti di una ripresa economica che proprio il mercato immobiliare indica come una concreta possibilità.

Banche: la fine di un’era

Negli anni ’80 in America esistevano più di 18.000 banche.

Oggi invece le banche sono appena 4.700 e continueranno a ridursi, in media, per i prossimi 37 anni.

Infatti, nonostante la drastica diminuzione, gli Stati Uniti hanno ancora 10 volte più banche rispetto ad altri paesi.

Il Canada, ad esempio, ha solo 35 banche…

La Francia 337…

Il Regno Unito 344…

C’è ancora spazio quindi in America per ulteriori fusioni e consolidamenti tra banche.

E se il ritmo di 117 fusioni in media all’anno proseguirà invariato, abbiamo ancora altri 37 anni prima di scendere a numeri piu’ simili a quelli degli altri paesi, ossia a un intervallo compreso tra 300-500 banche in tutti gli Stati Uniti.

La rete bancaria: un sistema ormai antieconomico

Il motivo principale per cui il sistema bancario tende a semplificarsi, tagliando gli istituti minori e aggregando gli istituti di media entità, è sostanzialmente uno solo: la tradizionale rete di banche che serve il territorio con servizi di credito e movimentazione del denaro è sempre piu’ costosa.

Ultimamente le politiche di inasprimento della banca centrale americana hanno peggiorato la situazione, come mostra questo grafico:

La grande banda rossa a destra mostra l’incredibile aumento di scambi “reverse repo” tra la Federal Reserve e le banche.

Il reverse repo è un servizio con cui la banca può chiedere in prestito alla Federal Reserve dei buoni del tesoro, con la promessa di restituirli a un prezzo maggiore.

I titoli presi in prestito possono aiutare la banca a gestire le proprie riserve di liquidità e soddisfare i requisiti normativi.

Ovviamente, però, per la Fed queste operazioni sono un costo, in quanto, alla data di scadenza del contratto di reverse repo, la banca centrale è obbligata a rimborsare la controparte con il tasso di interesse concordato e l’importo del capitale .

E quel grafico ci fa capire quanto enorme sia stato l’aumento di questo costo nell’ultimo anno.

A questo dobbiamo poi aggiungere il Bank Term Funding Program (BTFP), istituito subito dopo la recente crisi bancaria, con cui la Fed si impegna a soccorrere eventuali buchi di bilancio di una banca comprando dalla banca stessa un certo numero di buoni del tesoro, non a prezzo di mercato (sarebbe una perdita per la banca), ma a prezzo intero.

Perché la Fed ha deciso di sopportare questi costi?

Apparentemente, la Fed sembra volersi accollare questi costi crescenti per salvaguardare la capacità delle banche a fornire prestiti a cittadini e imprese.

La fuga dei correntisti dalle piccole banche verso le grandi banche e i fondi comuni monetari (un femomeno che promette di cronicizzarsi, come abbiamo spiegato qui) ha ridotto la liquidità necessaria a queste banche per concedere prestiti.

Se dunque i prestiti si contraggono, anche l’economia, poco alla volta, scivola verso la recessione.

Quindi avrebbe senso pensare che la Fed voglia preservare le linee di credito verso cittadini e imprese da cui viene creato nuovo denaro con cui far ripartire l’economia.

D’altra parte però la Fed ha appena compiuto il piu’ veloce e aggressivo programma di aumento dei tassi d’interesse e di riduzione dei titoli di stato della sua storia, proprio per lo scopo opposto, ossia quello di rallentare l’economia.

Quindi la Fed sarebbe afflitta da schizofrenia, abbattendo di giorno l’economia e poi risollevandola di notte, come la tela di Penelope?

Oppure va avanti per tentativi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, sperando di mantenere l’economia in un equilibrio precario?

E se invece la banca centrale avesse uno scopo diverso? Un disegno di cui ora scorgiamo solo contorni parziali, ma che diventerà molto piu’ chiaro in seguito?

Il vero scopo della Fed: creare una classe di buoni del tesoro priva di oscillazioni di mercato

Possiamo avvicinarci a capire il vero scopo della Fed osservando il suo nuovo servizio di prestito di buoni del tesoro a beneficio delle banche centrali degli altri paesi.

Con le nuove linee giornaliere di swap in dollari USA, anch’esse istituite dopo la crisi bancaria recente, la Fed ha iniziato a prestare buoni del tesoro – anche in questo caso, al valore nominale, non al prezzo di mercato – alle banche centrali estere, in modo che queste possano ricevere in prestito dollari USA dalle istituzioni finanziarie dei loro paesi in cambio di questi titoli (in pratica, un servizio analogo al reverse repo americano).

Anche se questo servizio è stato finora utilizzato solo una volta, per sostenere il default di Crédit Suisse, la sua semplice esistenza ci fa capire che il suo scopo non è tanto quello di sostenere i default delle banche straniere, ma di evitare che istituzioni finanziarie non statunitensi afflitte da crisi improvvise inizino a vendere in massa titoli del Tesoro statunitensi per realizzare liquidità.

Perché le banche centrali di tutto il mondo dovrebbero distribuire ai loro istituti in difficoltà titoli americani valutati a $ 1.000, anche se valgono solo $ 800? Semplice: per evitare che l’intero castello di carte crolli.

La Federal Reserve e le banche centrali dei paesi “amici” stanno semplicemente rimuovendo il rischio di duration e la crisi di liquidità dai buoni del tesoro USA.

In ultima analisi, ciò che sta facendo la Fed non è altro che una grande campagna di stabilizzazione dei titoli di stato americani.

Infatti, queste nuove linee di credito nazionali ed estere che hanno come collaterale dei buoni del tesoro privi di oscillazioni di mercato non subiscono gli effetti delle politiche monetarie della Fed.

Ma, ancora una volta, siamo di fronte a uno strano dilemma: perché la Fed, da una parte attua delle politiche monetarie, anche molto forti, per ottenere un effetto preciso sull’economia (inflattivo il QE, deflattivo il QT) e poi dall’altro lato crea delle linee di credito per le quali tali effetti sono nulli?

Se queste linee di credito venissero usate non solo dalle banche, ma in tutto il sistema creditizio, renderebbero vani tutti gli sforzi della Fed di creare effetti deflattivi o inflattivi con le sue politiche; in pratica, renderebbero inutile la Fed stessa…

Quindi tali linee di credito sono destinate ad essere usate solo in casi particolari all’interno di una cerchia ristretta di operatori?

Oppure c’è ancora dell’altro che non sappiamo?…

FedNow ha forse qualcosa a che fare con tutto questo?

Coloro che fanno parte della rete FedNow (all’inizio saranno soprattutto le banche) potranno inviare/ricevere denaro in pochi secondi con regolamento quasi istantaneo.

E’ tutto qui il nuovo servizio di pagamento che la Fed intende lanciare tra giugno e luglio.

Da un certo punto di vista, FedNow sembra fatto apposta per rendere ancora piu’ efficiente il controllo della Fed sui default bancari che lei stessa ha innescato con le sue politiche monetarie.

I pagamenti istantanei potrebbero infatti permettere massicce iniezioni di liquidità in tempo reale da parte della Fed.

Con FedNow, i due strumenti che la Fed ha già messo in campo per il salvataggio delle banche (il poco usato Discount Window e il già citato Bank Term Funding Program) potrebbero essere attuati molto piu’ velocemente, annullando in tempo reale gli effetti distruttivi di qualsiasi bank run, non importa di quali dimensioni.

FedNow potrebbe però essere usato anche per un altro scopo.

Lo scopo “segreto” di FedNow

Prima di vedere di cosa si tratta, stabiliamo una cosa.

FedNow NON è un CBDC (un dollaro digitale).

Non stiamo parlando di uno strumento che permette di effettuare pagamenti o transazioni di dollari digitali.

FedNow è semplicemente una piattaforma con cui è possibile comprare e vendere buoni del tesoro dalla Fed; punto e basta.

Questa piattaforma però, se condivisa con un numero sufficiente di operatori, istituti e società, potrebbe essere utilizzata per effettuare una “promozione” capillare dei buoni del tesoro, al fine di trasformare questi ultimi in asset da investimento in competizione con altri piu’ famosi, come le borse, l’oro o le cripto.

Gli sforzi per rendere piu’ stabili i prezzi e dunque i rendimenti dei buoni del tesoro potrebbero quindi essere per la Fed il prerequisito essenziale per rendere appetibile questa nuova classe di titoli da investimento.

La predilezione che oggi gli investitori sembrano avere per i buoni del tesoro (a causa dei buoni rendimenti, superiori a qualsiasi deposito bancario) e che sta spingendo sempre piu’ capitali fuori dalle banche, potrebbe diventare permanente, se si riuscisse a creare una classe separata di questi titoli che sia al riparo dalle fluttuazioni di mercato – una specie di stablecoin della Fed, insomma…-

E’ forse questo l’obiettivo inconfessato della Fed?

Non possiamo dirlo con certezza. Ma una cosa è certa: un titolo garantito dalla Fed con un prezzo e un rendimento fisso (o almeno oscillante in un range accettabile) sarebbe il collaterale perfetto per il CBDC, il dollaro digitale di cui tanto si parla, ma che ancora non riesce a vedere la luce.

In pratica, anche senza avere un “gold standard”, questo CBDC avrebbe un collaterale altrettanto forte e stabile, cioè i buoni del tesoro in versione “stablecoin” della Fed.

Ogni utopia, per realizzarsi ha bisogno di condizioni molto difficili da ottenere (altrimenti, non sarebbe un’utopia…)

Tutto questo può sembrare affascinante o inquietante, ma dobbiamo anche restare coi piedi per terra e capire che per realizzare questa utopia, ossia un CBDC con un “gold standard” di titoli di stato, dovrebbero esserci delle condizioni molto difficili da mantenere:

– i tassi d’interesse dovrebbero restare abbastanza alti per sempre

– dovrebbe esserci un controllo capillare nella diffusione dei titoli di stato americani (questi titoli dovrebbero essere disponibili solo per i paesi alleati e invece preclusi alle banche centrali di tutti gli altri paesi)

– le iniziative militari dovrebbero essere intensificate all’inverosimile, per evitare che il dollaro diventi una valuta totalmente screditata a livello internazionale

– le banche commerciali dovrebbero sparire, mentre le sole grandi banche sistemiche avrebbero il controllo di queste.

Tuttavia, siamo realmente alla fine di un’era…

Il tasso di sparizione delle banche regionali e il ritmo dei consolidamenti delle banche medie in grandi gruppi, cosi’ come il cronico abbandono dei servizi finanziari erogati dalle banche non sono qualcosa di occasionale, al contrario, compongono un trend strutturale che sta subendo una accelerazione grazie alle politiche della Fed.

Non c’è dubbio che siamo di fronte a una fase di transizione verso un sistema in cui le banche non avranno piu’ la stessa funzione di ora.

Non c’è dubbio che, in questo sistema del futuro, altri protagonisti sono destinati ad assumere le funzioni che finora erano state appannaggio delle banche.

Tanto per aprire la mente, basta guardare questo grafico:

Come si vede, negli ultimi 14 anni, mentre il sistema con al centro le banche è entrato in crisi, gli indirizzi di bitcoin sono aumentati costantemente, a dispetto dei cicli di rialzo e ribasso di questa valuta. Ciò indica una costante e inarrestabile adozione che presto diventerà un fenomeno di massa.

Le criptovalute e FedNow. Chi vincerà?

Tuttavia, anche qui dobbiamo stare coi piedi per terra e ammettere che, per quanti sforzi siano stati fatti dal lato tecnico nel mondo delle criptovalute, al momento questa classe di asset ha un solo grande vantaggio, rispetto a un CBDC (anche nella versione “ipercollateralizzata” che abbiamo ipotizzato), ed è la sua incredibile capacità di moltiplicare il suo valore per mille volte.

Per tutti gli altri usi, le cirpto non sono affatto competitive…

Al momento, i servizi blockchain che mimano i servizi finanziari tradizionali non sono ancora in grado di guadagnare il favore delle masse, anche se gli ultimi default bancari ne hanno fatto aumentare di molto l’adozione.

Persino come valuta di scambio, la piu’ veloce e scalabile fra le criptovalute è un pachiderma al confronto della piattaforma FedNow (che oltretutto non usa la blockchain).

La decentralizzazione riduce la velocità e la scalabilità (e anche la convenienza economica) delle transazioni. Questa è una “legge di natura” per la blockchain. Per questo non ci sarà mai una cripto capace di competere con il massimo della centralizzazione, cioè con FedNow. E se un giorno vi fosse, non sarebbe davvero una cripto, ma una sua imitazione.

Ecco quindi che per immaginare il futuro in modo realistico, per quanto possibile, dobbiamo abbandonare le nostre “fedi”, i dogmi, i pregiudizi e tutto ciò che ci impedisce di accogliere nella nostra ipotesi anche gli elementi che ci piacciono di meno, ma che hanno delle potenzialità pari o superiori ai nostri “oggetti di culto” preferiti.

Se la Fed fosse in grado di creare un asset da investimento in grado di dare un rendimento stabile tra il 4% e il 6%, facile da usare, agile e interscambiabile a velocità supersonica nella piattaforma FedNow, sarebbe in grado di insidiare le cripto nel loro regno finora incontrastato: quello del rendimento, appunto.

E’ vero infatti che il rendimento delle cripto è migliaia di volte superiore.

Ma è anche vero che le masse non conoscono la semplice ciclicità di questa classe di asset e pensano che investire in criptovalute comporti prima o poi la perdita di tutto il proprio patrimonio (anche se chi investe in cripto ha avuto il beneficio opposto: il patrimonio se l’è creato. E in pochissimi anni).

La maggior parte delle persone ritiene ancora accettabile e persino desiderabile un rendimento tra il 4% e il 6% che non implichi patemi d’animo e non richieda particolari conoscenze tecniche o cicliche.

Per questo ritengo che FedNow, se dovessere essere usato in competizione con le cripto, sarebbe un avversario formidabile…

In conclusione…le banche, il CBDC, i buoni del tesoro, FedNow, le cripto, le DeFi e la valuta fiat non si elimineranno a vicenda (almeno, non subito), ma procederanno per molto tempo fianco a fianco in una competizione senza esclusione di colpi.

Recessione o “soft landing”: su cosa scommettono le borse USA?

In un post del 3 aprile sul nostro canale Telegram ci eravamo chiesti come mai lo S&P500 ha una situazione tecnica molto favorevole (sia nel breve che nel lungo periodo) nonostante tutti gli indicatori di recessione stiano segnalando un “allarme rosso”.

Da un certo punto di vista, la situazione tecnica ottimale delle borse potrebbe essere la rappresentazione delle aspettative positive degli analisti sugli utili e sulla crescita economica. Aspettative che sembrano non tenere conto dei pericoli di recessione.

La tesi del “soft landing”

Molti analisti prevedono che la crescita del PIL americano, anche se al di sotto del trend, sarà accompagnata da un aumento di appena 1/2 punto del tasso di disoccupazione al 4,1% e che quindi l’economia statunitense eviterà la recessione nel 2023.

Ma se non ci sarà “nessuna recessione nel 2023”, allora il calo degli utili aziendali e dei margini di profitto che è avvenuto in questi mesi dovrebbe aver raggiunto il punto di minimo. E di conseguenza, i titoli di borsa sarebbero valutati equamente ai livelli attuali, supportando la possibilità del ritorno del trend rialzista.

Un esempio di questa opinione è questo grafico di S&P Global, pubblicato a metà marzo, nel quale si prevede che gli utili delle aziende abbiano toccato il minimo nel primo trimestre 2023 e debbano tornare a salire fino al picco raggiunto a gennaio 2022:

Ma se le previsioni sugli utili degli analisti sono corrette, allora il mercato dovrebbe salire anche oltre, verso il picco raggiunto nel 2021:

La tesi della recessione imminente

Secondo i sostenitori della prossima recessione invece, l’inasprimento monetario della Fed non ha ancora mostrato pienamente i suoi effetti e forse prenderà piede entro la fine dell’anno, sorprendendo i fautori del “soft landing”.

Alcuni importanti indicatori di recessione sembrano confermare questa ipotesi.

Inversione delle curve dei rendimenti

Attualmente, il 100% degli spread tra i rendimenti dei buoni del tesoro a varie scadenze di breve termine contro il rendimento a 10 anni sono invertiti. Storicamente, una recessione avviene ogni volta che più del 50% di questi spread si invertono:

Rialzo delle curve dei rendimenti

Mentre le inversioni della curva dei rendimenti anticipano una recessione, è il successivo rialzo delle curve che indica l’imminenza della recessione.

Non tutte le curve dei rendimenti si muovono all’unisono. Attualmente solo la curva 3m30y (rendimento dei buoni del tesoro a 3 mesi contro quello a 30 anni) si è rialzata. Nelle precedenti recessioni in effetti questa curva ha iniziato ad aumentare molto prima della maggior parte delle altre.

LEI

Il Leading Economic Index (LEI), in particolare la sua variante semestrale, in passato ha anticipato sempre imminenti recessioni:

Credit Crunch

L’aumento degli standard di prestito più severi è stato un indicatore storicamente affidabile delle recessioni:

EOCI

L’Economic Output Composite Index (EOCI), che comprende più di 100 voci di dati sulla produzione e sui servizi, è a livelli che hanno coinciso in precedenza con le recessioni. Nonostante misuri l’economia in modo diverso, l’EOCI mantiene un’elevata correlazione con il LEI:

Altri fattori discontinui

La situazione è di difficile interpretazione, perché se gli analisti del “soft landing”, per i quali non vi sarà recessione nel 2023, avessero ragione, vorrebbe dire che questi indicatori di recessione si stanno sbagliando per la prima volta dal 1974.

Ma ci sono anche fattori che possono determinare un esito misto.

Vediamo alcuni esempi.

Il fattore antirecessione di breve termine della Fed

Per i consumatori che (come detto qui) stanno investendo migliaia di miliardi di dollari in fondi del mercato monetario e buoni del tesoro e che, grazie ai rialzi dei tassi della Fed, iniziano a vedere da questi strumenti un vero flusso di rendimenti per la prima volta in 14 anni, potrebbe iniziare una nuova stagione di spese voluttuarie.

La possibile ripresa dei consumi potrebbe annullare (o ritardare) gli effetti recessivi (mai ammessi dalla Fed) delle politiche monetarie restritive sull’economia americana.

Un aiutino per Powell dall’OPEC

Inizio a chiedermi quanto della conflittualità economica tra gli USA e i BRICS, piu’ Arabia Saudita, piu’ Iran e cosi’ via, sia reale e quanto sia un gioco delle parti…

Sta di fatto che la recente decisione a sorpresa dell’OPEC di ridurre la produzione di petrolio arriva giusto in tempo per innescare una simil-inflazione di breve.

Se davvero i dati iniziassero a mostrare un apparente ritorno dell’inflazione (o simil-inflazione), la Fed potrebbe sentirsi autorizzata a proseguire con i rialzi dei tassi.

Al contrario, se il rischio dei default bancari si ripresentasse e/o i dati sull’inflazione mostrassero segnali di disinflazione troppo evidenti per poter essere negati, la Fed potrebbe prendersi una pausa dal rialzo dei tassi e sarebbe costretta a immettere liquidità a salvataggio delle banche.

Queste immissioni di liquidità sarebbero sostegni discontinui, di cui è difficile prevedere ora la capacità di attivare o meno fenomeni di crescita economica o di incrementi delle borse.

La verità sta nel mezzo?

A mio modo di vedere, uno dei limiti che ci impediscono di capire se siamo diretti o meno verso una recessione è il fatto che oggi l’economia americana viene vista ancora come un’entità monolitica, mentre è evidente che si sta frammentando in aree e settori perdenti e vincenti.

Un chiaro esempio di questo è ancora una volta il settore immobiliare.

La crisi immobiliare che sta trascinando giu’ le banche regionali riguarda un solo settore, quello degli immobili commerciali.

Al contrario, il settore residenziale mostra segni di resilienza, se non proprio di lenta ripresa.

Ancora piu’ drammatica è la polarizzazione di questo mercato riguardo alle zone:

La tabella sopra ad esempio mostra i flussi in entrata di inquilini e proprietari nelle aree vincenti (perlopiu’ a ovest e a sud del paese) determinati da un vero e proprio esodo (o Grande Migrazione, come viene chiamata) in uscita dalle aree perdenti (New York, California, Chicago, Seattle).

E’ ovvio che i fondi di investimento che coprivano solo le aree perdenti siano in perdita. Ma cio’ non vuol dire che il settore sia in crisi, in quanto gli stessi identici flussi che ora mandano in default le aree perdenti, stanno beneficiando in modo altrettanto forte le aree vincenti.

L’unica conclusione possibile: investire con un orizzonte di medio termine

Siamo a un punto di svolta in molti settori dell’economia americana ed è probabile che alcuni indicatori non siano tarati per analizzare in dettaglio le differenze all’interno di ciascun settore e mostrino perciò un’immagine falsata dei trend.

Inoltre, anche la borsa è estremamente diversificata e comprende settori, come quelli tecnologici, che possono avvantaggiarsi anche in una situazione recessiva, purché vi sia il sostegno monetario da parte della Fed.

Personalmente non mi azzarderei a fare previsioni di lungo termine, riguardo alla possibilità di una recessione.

Piuttosto, cercherei di seguire i trend che via via emergono nelle borse, cercando di cavalcarli in un’ottica di medio termine.

Non per niente, i trend rialzisti che sembrano prendere forza ora sono certamente determinati dalle previsioni positive di crescita di alcuni settori, come quello tecnologico, che si avvantaggiano proprio in uno scenario intermedio fatto di:

  • crescita moderata o recessione moderata
  • niente QE, ma immissioni di liquidità discontinue della Fed a salvataggio di banche o altri settori.

Il motivo per cui ora il Nasdaq è cosi’ vincente è forse proprio questo: si tratta di una scommessa di medio termine che non prende una posizione netta sulle direzioni a lungo termine dell’economia.

Ecco il secondo bank run che farà salire le borse USA

Il 30 marzo avevamo pubblicato sul nostro canale Telegram un post in cui commentavamo il fatto che, dopo i primi bank run avvenuti in America a seguito dei fallimenti bancari, il rendimento dei buoni del tesoro americano a 10 anni era crollato dal 4,07% al 3,37%, mentre il rendimento di quelli a due anni era crollato dal 5,06% al 3,76%.

Queste rapidi diminuzioni dei rendimenti si spiegavano facilmente col fatto che i correntisti, dopo aver tolto i soldi dai loro conti bancari, li avevano spostati sui buoni del tesoro o sui fondi monetari che investono in essi.

In tal modo, un aumento della domanda aveva incrementato i prezzi di questi titoli, facendone diminuire il rendimento, che è sempre inverso al prezzo.

Tuttavia nel post notavamo che, dopo questo brusco calo, i rendimenti erano di nuovo aumentati (moderatamente) verso la fine di marzo. Infatti, nel momento in cui scrivevamo il post, il rendimento a 10 anni era salito al 3,59% e quello a due anni era al 4,10%.

In una nota riservata ai clienti della Barclays, Joseph Abate, uno dei maggiori esperti del sistema bancario, ha fornito una spiegazione di questa momentanea risalita dei rendimenti.

Secondo Abate infatti in tutte le restrizioni monetarie effettuate dalla banca centrale americana nel 1984, 1995, 2004 e 2015, i bank run hanno sempre avuto due fasi distinte:

1. Una fase acuta in cui i correntisti corrono a svuotare i depositi a seguito di qualche default bancario

2. E una fase “cronica”, in cui i correntisti, anche senza la spinta dei default bancari, iniziano a spostare ugualmente i propri risparmi nei fondi monetari o nei buoni del tesoro a breve termine, perché questi ultimi offrono rendimenti maggiori di quelli elargiti dai depositi delle banche.

Anche se il gap di rendimento tra i depositi bancari e il mercato monetario esisteva già nel corso della fase 1, la fase 2 avviene sempre in ritardo, in quanto esiste una soglia di “disattenzione” al di sotto della quale gli investitori non danno importanza a questa differenza dei rendimenti delle loro disponibilità liquide in banche o fondi monetari.

Sulla base dei cicli passati, possiamo notare che solo quando lo spread tra i tassi di deposito e quelli del mercato monetario si avvicina a 200 punti base, il denaro inizia a muoversi verso i fondi monetari e i buoni del tesoro a un ritmo sempre più veloce, con grande angoscia esistenziale delle banche più piccole che non possono eguagliare i tassi del mercato monetario.

Questi flussi “ritardati”, una volta iniziati, acquistano rapidamente slancio, portando rapidi aumenti nei saldi dei fondi monetari del valore di diverse centinaia di miliardi di dollari.

Abate conclude la nota dicendo che nel ciclo restrittivo attuale: “la soglia di disattenzione è stata raggiunta ed è già iniziata la seconda ondata di deflussi di depositi.”

Per tale ragione, la ripresa di acquisti di questi titoli ne farà nuovamente incrementare il prezzo, con conseguente nuova discesa dei rendimenti.

Grazie quindi a questo “bank run cronico” di medio lungo periodo, il trend in discesa dei rendimenti dei buoni del tesoro, iniziato nella “fase acuta”, avrà un nuovo slancio e confermerà i segnali dell’analisi tecnica, da noi spesso commentati su Telegram, che mostravano già la probabilità che questo trend sarebbe stato appunto di medio-lungo termine.

Nel corso di questo bank run cronico, molto piu’ lungo del bank run “acuto”, la Fed forse dovrà fornire ulteriore liquidità nei suoi programmi di salvataggio, per proteggere i correntisti delle banche regionali americane, che certamente inizieranno a soffrire nuovamente.

Questa è una delle ragioni per cui il trend delle borse azionarie è sempre inverso a quello dei rendimenti dei buoni del tesoro.

Man mano che i rendimenti dei titoli di stato scendono e la Fed immette nuova liquidità nel mercato, il rialzo del mercato azionario (soprattutto nel Nasdaq e nello S&P500) riprende il suo ciclo di medio termine.

Ma anche nel lungo termine il mercato azionario avrà una spinta in piu’, in quanto il ciclo dei buoni del tesoro a un certo punto inizia a “mordersi la coda”: man mano infatti che gli investitori entrano in questi titoli, ne fanno scendere i rendimenti fino al punto da renderli meno attraenti rispetto ai rendimenti offerti dai i titoli azionari ad alta crescita.

La fase in cui gli investitori sono attratti dai buoni del tesoro è quindi sempre di corto respiro, perché è soggetta a una sorta di auto-riduzione programmata, dovuta all’impossibilità di mantenere alti i rendimenti di fronte a un aumento dei flussi di capitale in questi titoli.

Al contrario il mercato azionario per definizione incrementa i rendimenti proprio grazie all’aumento dei flussi di capitali.

Il vero incubo della SEC si manifesterà il 12 aprile…

C’è un enorme catalizzatore all’orizzonte per Ethereum. E potrebbe iniziare entro il 12 aprile.

L’aggiornamento di Ethereum chiamato “Shanghai” ha il potenziale di sbloccare un’opportunità di guadagno di $ 40 miliardi per i possessori del token eth.

Tutto ha a che fare con lo “staking” di eth.

Lo staking è un modo per guadagnare interessi per il possesso di criptovalute.

Da dicembre 2020, chi voleva partecipare al mining della nuova versione di Ethereum basata sulla “proof of stake”, poteva già depositare una quantità minima di token che avrebbero iniziato a generare rendimenti, una volta che la proof of stake sarebbe iniziata.

Questi token depositati, però, non si potevano prelevare… fino al 12 aprile di quest’anno.

L’aggiornamento di Shanghai consentirà appunto agli staker di Ethereum di ritirare i propri token quando lo desiderano.

Un deposito che rende dal 4% al 10% e che può essere svincolato quando si vuole, non si è mai visto nel mondo finanziario; per questo incoraggerà molti indecisi a partecipare e aprirà forse le porte anche ai capitali istituzionali.

In questo momento, ci sono circa 16 milioni di ETH in staking che rendono circa il 4-6%.

Attualmente, nel bel mezzo di un mercato laterale – ribassista, con l’attività di rete estremamente bassa, le rendite totali pagate agli stakers ammontano a circa $ 1 miliardo.

Durante i periodi di alta attività di rete, come abbiamo visto nei giorni successivi al crollo dell’exchange FTX, questo rendimento è salito a oltre il 10%.

Quando riprenderà il mercato rialzista, possiamo aspettarci che l’attività della rete esploda.

Se l’attività raggiungerà la stessa intensità del periodo 2020-2021, avremmo diversi scenari possibili, in base al prezzo che ETH raggiungerà in quella fase.

Se ad esempio Ethereum rimanesse per assurdo a $ 1.800 (è ovvio che con un bull market simile al 2021, il prezzo sarebbe molto piu’ alto), ciò si tradurrebbe in circa 1,6 milioni di ETH pagati annualmente agli staker, pari a $ 2,8 miliardi.

Se invece Ethereum arrivasse a, diciamo, $ 25.000, potremmo vedere circa 40 miliardi di dollari all’anno pagati agli staker di Ethereum.

Lo staking di ETH quindi si trasformerebbe in uno dei fenomeni finanziari piu’ rilevanti degli ultimi anni.

Per questo, da quando l’ultima ondata di crisi bancaria americana ha messo in cattiva luce la finanza tradizionale, si percepisce un inasprimento delle istituzioni, come la SEC, legate alle banche centrali e alle banche sistemiche nei loro sforzi di ostacolare la ripresa di fiducia nelle cripto da parte degli investitori.

Di tutti gli strumenti mai offerti dal mondo cripto per avere rendite sicure lontane dalla finanza tradizionale, lo staking di Ethereum sarà di gran lunga quello che offrirà maggiori attrattive, per le sue dimensioni e per l’affidabilità che l’ecosistema Ethereum è ormai in grado di offrire.

Per questo Gensler, il capo della SEC, ha messo le mani avanti dichiarando ETH come una “security” (titolo di borsa), indicandolo implicitamente come il suo prossimo obiettivo, una volta che questo fatto epocale dello staking inizierà a prendere piede.

Tuttavia, come giustamente osserva questo articolo, l’approccio della SEC non può essere che frammentario.

La SEC non è un organo legislativo, quindi non ha il potere di cambiare le carte in tavola con un singolo provvedimento, come fa il legislatore.

La SEC puo’ solo attaccare un pò qui e un pò là, moltiplicando i contenziosi che però, per loro natura, restano confinati ai casi specifici.

Prevedo che la portata dello staking di Ethereum sarà talmente universale da rendere difficile poterla contrastare con questo approccio, caso per caso.

E’ al contrario probabile che questo evento mostrerà tutta la debolezza di Gensler.

Se l’affermazione dello staking di ETH diventasse un fenomeno inarrestabile, impossibile da fermare nonostante gli sforzi di Gensler, esso sarebbe il muro contro cui la corsa della SEC è destinata a schiantarsi.

Inoltre, dal punto di vista ciclico, questo evento potrebbe eguagliare gli effetti dell’ormai noto “halving” di Bitcoin.

Una diffusione capillare di ETH messi in staking potrebbe avere la forza di creare un suo proprio effetto ciclico, in sovrapposizione con quello di BTC.

Lo staking di ETH potrebbe diventare anche uno degli oggetti del desiderio degli istituti bancari che riusciranno a prevalere nella resa dei conti che oggi hanno ingaggiato in America (e che noi chiamiamo un pò troppo genericamente “crisi bancaria”).

La natura ambivalente di minaccia di opportunità che le cripto hanno sempre rappresentato per le banche, con lo staking di ETH raggiungerà la sua forma finale che forse innescherà un conflitto lacerante tra questi istituti.

Tutto questo, a partire dal 12 aprile, data di inizio di questo fenomeno epocale.

Ne vedremo delle belle…

L’imbroglio della garanzia sui depositi bancari USA

Il Financial Times in questo articolo ci fa sapere che è in atto “il più grande trasferimento di depositi dell’ultimo decennio”.

Infatti, dice l’articolo: “I clienti delle banche medie e piccole, soprattutto se hanno depositi che superano la soglia di $ 250.000 garantita dall’assicurazione federale, stanno spostando i loro fondi in istituti più grandi, come JPMorgan, Citi e Bank of America”.

In un nostro recente articolo avevamo colto questo aspetto, secondo noi centrale, della odierna crisi bancaria americana; cioè il fatto che con essa non viene messo in discussione tutto il sistema (come avvenne nella crisi del 2008).

Al contrario, questa crisi, molto particolare e ancora poco compresa dai media, non è che l’affermazione cruenta di un monopolio delle grandi banche sistemiche a danno delle banche commerciali che assicurano servizi essenziali alla società.

Col passare dei giorni, nuovi aspetti sembrano confermare questa lettura della crisi.

Come, ad esempio, lo scontro politico che oggi si svolge in America sulle garanzie federali sui depositi.

Attualmente, in caso di default di una banca, la FDIC garantisce i depositi fino a una cifra di 250.000.

Quindi, per tamponare l’esodo di correntisti dalle banche commerciali americane, la Mid-Size Bank Coalition of America sta spingendo le autorità di regolamentazione a estendere per due anni l’assicurazione della FDIC oltre quella cifra.

Altri politici e vari gruppi di pressione stanno chiedendo al governo di dare priorità a questa urgente misura.

Tuttavia proprio ieri, testimoniando davanti al Senato, Janet Yellen, presidente del Tesoro americano, alla domanda se i suoi funzionari stanno appunto studiando modi per espandere la copertura FDIC a tutti i depositi bancari, ha risposto testualmente:

“Non è qualcosa che stiamo prendendo in considerazione”.

Questa posizione intransigente viene comunemente giustificata dai media sostenendo che, se si aumentasse oltre i 250.000 dollari l’ammontare dei depositi garantito dallo stato, si abbasserebbe la soglia di vigilanza delle banche. 

Le banche cioè si sentirebbero autorizzate a fare operazioni spericolate, come ad esempio concedere prestiti a chi non fornisce abbastanza garanzie di restituzione del debito, perché tanto c’è lo stato a coprire eventuali perdite.

Questo argomento è purtroppo molto giusto. Effettivamente le banche in questi anni sono state di manica troppo larga e ora si ritrovano spesso con troppi crediti deteriorati.

Ma è anche vero che, in questo frangente, la rigidità del governo su questo aspetto aumenta il rischio di default delle banche commerciali medio-piccole americane.

Non credo che aumentare per due anni la soglia di garanzia dei depositi possa fare piu’ danni di quanti ne siano stati fatti in decenni di mancata vigilanza dello stato sulla qualità dei crediti che venivano concessi dalle banche.

Inoltre, le banche eventualmente oggetto di questa misura sarebbero proprio quelle piu’ sane, molto meno propense a concendere crediti rischiosi, rispetto alle grandi banche sistemiche, che al contrario sono note per avere pochi scrupoli in questo senso, soprattutto se devono favorire gruppi politici, multinazionali o governi stranieri.

Se poi consideriamo il valore della soglia attuale di garanzia, i famosi 250.000 dollari, alla luce della perdita di potere d’acquisto del dollaro negli anni, la rigidità della Yellen è ancora meno giustificata.

Vediamo perché…

Il governo creo’ la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) nel 1933 sulla scia del crollo del mercato azionario del 1929 e dei successivi primi anni della Grande Depressione.

L’importo iniziale del deposito protetto dalla FDIC era di $ 2.500.

La dimensione dell’assicurazione sui depositi è aumentata nel corso dei decenni, adeguandosi alla perdita di valore del dollaro, raggiungendo ad esempio la soglia di $ 100.000 nel 1980.

L’importo attuale, pari a $ 250.000, fu deciso, come si puo’ immaginare, sulla scia del crollo del 2008/2009.

Ora, come termine di paragone, pensiamo che quando il Tesoro americano salvo’ le banche nel 1980, il valore della soglia di garanzia di allora, pari a 100.000 dollari, riportato al valore attuale del dollaro, corrisponderebbe a circa 365.097 dollari!!

Se volessimo adeguare la soglia di garanzia alla perdita di valore del dollaro occorsa dal 2008 a oggi, i 250.000 dollari attuali dovrebbero diventare almeno 400.000!

Siamo tuttavia consapevoli che questi calcoli hanno un valore puramente accademico e che la vera posta in gioco oggi è la competizione che la politica federale di incremento dei tassi ha innescato tra le banche americane.

Non possiamo fare altro che stare a guardare e aspettare di capire quali saranno gli istituti bancari superstiti alla fine di questo gioco al massacro.

Il default Crédit Suisse: un delitto in pieno giorno

Nel panico creato dai default bancari di questi giorni, si tende ad accomunare il crack di Crédit Suisse e quello delle banche americane in una stessa narrativa, ossia quella di una possibile riedizione della grande crisi finanziaria del 2008.

Se pero’ ci si ferma a riflettere, risulta evidente che i default americani e quello svizzero sono del tutto diversi.

Ad esempio:

US: Gli istituti di credito americani falliti, o fatti fallire, sono di medie dimensioni e appartengono alla categoria delle banche commerciali.

CH: Crédit Suisse è invece una grande banca sistemica globale.

US: Il fattore principale che ha permesso i default americani è stata la crisi dei buoni del tesoro USA, innescata dai rialzi dei tassi della Federal Reserve.

CH: Crédit Suisse non aveva una particolare esposizione a questa classe di titoli.

US: I bank run che hanno fatto precipitare le cose sono avvenuti nell’arco di pochi giorni e sono stati in buona parte pilotati dall’esterno con la complicità di banche rivali (come spiegato qui).

CH: I bank run in Crédit Suisse erano già in corso da settimane e sono tuttora “misteriosi”, nel senso che nessuno ne ha mai fatto una analisi specifica.

Ma al di là di queste differenze puntuali, anche il principio di fondo su cui si basa questa lettura superficiale dei fatti non è sostenibile dal punto di vista logico

Spiego meglio…

La “crisi di fiducia” nel sistema bancario è davvero un problema anche svizzero?

E’ opinione comunemente accettata che il quadro generale in cui stanno avvenendo questi default bancari si basi sui seguenti fattori:

1 crisi di fiducia in un sistema bancario dominato dal sistema fiat (denaro come credito)

2 crisi di fiducia nella gestione della liquidità delle banche centrali,

Ma cosa c’entra la Svizzera in tutto questo?

Perché dei bank run sarebbero dovuti avvenire proprio in uno dei pochi paesi occidentali in cui i due fattori sopra citati hanno sempre avuto un impatto minimo sul suo sistema finanziario?

Infatti, guarda questi due grafici di seguito…

In un arco di tempo pluriennale, il franco svizzero funziona ancora come un’ottima riserva di valore nei confronti del dollaro e dell’euro.

Dopo l’oro e bitcoin, il franco è la terza riserva di valore piu’ usata, ed è anche molto meno volatile delle prime due.

I due grafici qui sopra non sarebbero possibili se vi fosse una crisi di fiducia nel franco e nella banca centrale svizzera.

Guardando poi la parte piu’ recente dei due grafici, vediamo che il franco negli ultimi mesi, si è apprezzato sia sul dollaro che sull’euro. E questo vuol dire una cosa sola: in questi mesi c’è stato un afflusso di capitali in Svizzera; altro che bank run..!

Ma allora, cosa ha provocato l’uscita di capitali fuori da Crédit Suisse? Perché è di questo che dobbiamo parlare, se vogliamo capire la ragione del default di questa grande banca. Il “punto cieco” della crisi bancaria svizzera è sempre quello che abbiamo detto all’inizio: i bank run.

Nessuno si è mai preoccupato di analizzare le ragioni del bank run di Crédit Suisse. Come se in questo periodo i bank run fossero un fenomeno naturale, che puo’ succedere ovunque, tipo la pioggia in autunno o la neve in inverno.

Al contrario, l’uscita di capitali da questa banca è dovuta a una causa ben precisa, completamente differente da quella che ha provocato i bank run in America.

Per capire di cosa si tratta, arriviamoci per gradi…

Parliamo anzitutto delle riserve straniere depositate nelle banche svizzere.

La Svizzera come rifugio dei capitali cinesi

La Svizzera è ancora il centro numero uno per la raccolta di capitali provenienti da tutto il mondo ed è responsabile di un quarto del totale globale dei capitali offshore.

Qui pero’ ci focalizziamo su uno specifico paese di provenienza di questi capitali: la Cina.

Pochi sanno che la borsa svizzera sta quotando un numero crescente di società cinesi che non vogliono piu’ sottostare alle “regole di ingaggio” della borsa americana.

Pochi sanno che questo non è un fenomeno passeggero, ma un processo di integrazione a lungo termine che ha implicato la determinazione di uno standard comune di auditing e supervisione da parte dei regolatori svizzeri e cinesi, con cui i capitali delle società possono essere riconosciuti e fatti transitare tra le borse di entrambi i paesi.

La Svizzera è uno dei pochi paesi occidentali che sta incamerando a piene mani capitali cinesi, e continua a farlo anche nel clima di diffidenza tra oriente e occidente instauratosi tra il 2022 e il 2023.

Ma a quanto ammontano i capitali cinesi depositati nelle banche svizzere?

E’ uno dei misteri di questo secolo su cui pochi media, come il Financial Times, hanno tentato di fare luce.

In questo articolo, il FT dice cose davvero interessanti, come ad esempio:

  • I beni russi domiciliati in Svizzera ammontano a un valore di 46,1 miliardi di franchi
  • Nell’ultimo decennio, tuttavia, la Cina è diventata una fonte di entrate molto più importante della Russia.
  • Possiamo dunque indovinare che i beni cinesi in Svizzera superino i 50, forse i 100 miliardi di franchi… o forse sono molto di piu’, se consideriamo il punto seguente…
  • Infatti, secondo Anke Reingen, analista della RBC Royal Bank intervistata dal FT, la Cina è ormai al centro della redditività delle maggiori banche svizzere, al punto che (cito): “Se guardi ai prezzi delle banche svizzere in borsa, ti accorgi che sono strettamente correlati agli indici asiatici, perché una parte ampia degli utili di queste banche proviene da quella regione”.

Quindi, da tutto questo e dal paragrafo precedente possiamo desumere che

…se vi è una crisi di fiducia nel sistema finanziario occidentale, la Svizzera viene vista dal continente piu’ popoloso al mondo: l’Asia, come una fortunata eccezione, anzi come un’opportunità in questa crisi, non come parte del problema. Non ti pare?

Ora, stablito questo concetto di base, passiamo al lato meno piacevole dell’articolo…

…se infatti lo abbiamo intitolato: “un delitto in pieno giorno”, dobbiamo a un certo punto spiegare di quale delitto parliamo…

La Svizzera presa al laccio delle sanzioni

Le notizie che riporto qui di seguito sono ormai note a tutti.

Le riassumo solo per mettere tutti i lettori sullo stesso binario…

Sappiamo tutti che l’ambasciatore Usa a Berna, Scott Miller, si è detto poco soddisfatto della Segreteria di Stato dell’economia svizzera, deputata a sorvegliare l’applicazione delle sanzioni alla Russia e si è anche irritato per alcuni commenti della direttrice Helene Budliger Artieda, che “rimettono in discussione l’utilità delle sanzioni”.

Secondo Miller, a fronte dei 7,75 miliardi di franchi di beni russi congelati in Svizzera, ci sono altri 50-100 miliardi che non sono stati congelati.

L’ambasciatore Usa a Berna ha inoltre esortato la Confederazione elvetica a prendere parte alla task force “Russian Elites, Proxies and Oligarchs” e a partecipare alla discussione su come confiscare questi fondi nel quadro del diritto internazionale e nazionale degli Stati.

La Svizzera non ha mostrato finora alcuna disponibilità in tal senso. E per l’ambasciatore Usa (questo passo è molto importante), i paesi che non si impegnano nella confisca dei fondi russi devono aspettarsi delle conseguenze.

Questo duro braccio di ferro non ha tranquillizzato i Cinesi.

Gli Americani possono parlare apertamente di confisca dei beni russi, per la ben nota situazione in atto, ma non possono certo dichiarare apertamente che anche la progressiva integrazione delle finanze cinesi e svizzere sia un incubo per loro; anzi, probabilmente è il loro incubo peggiore…

I Cinesi questo lo sanno bene e percio’, da quando le relazioni USA-Svizzera hanno iniziato a peggiorare, stanno riportando in patria una parte dei capitali che, come abbiamo visto, formano il core business di molte banche svizzere.

A quanto ammontano i capitali in fuga, rispetto al capitale totale cinese che si trova in Svizzera? Quali banche stanno subendo questi bank run? Nessuno lo sa, data la completa impenetrabilità del governo e degli enti regolatori svizzeri su questi argomenti.

Possiamo pero’ iniziare a tirare le fila del discorso e ipotizzare che la causa dei bank run di Crédit Suisse sia fortemente correlata alla fuga dei capitali cinesi o asiatici in generale dalla Svizzera…

…E che percio’ questa tendenza al bank run non ha nulla a che fare con la crisi di fiducia nelle valute fiat o nelle politiche monetarie delle banche centrali occidentali, ma piuttosto con la possibilità che la Svizzera prima o poi venga obbligata ad allinearsi con il resto dell’occidente nel mandare all’aria l’affidabilità della custodia dei depositi nelle sue banche.

Conclusione: ancora una volta, non siamo nel 2008

Il quadro che abbiamo delineato finora rende piuttosto evidente la diversità incommensurabile tra le crisi bancarie americane e quella svizzera.

In America abbiamo un sistema finanziario sempre piu’ difficile da gestire e una banca centrale che sembra impegnata a distruggere, piu’ che a trovare soluzioni, lasciando campo libero alla legge della jungla nella quale le banche piu’ grandi iniziano a divorare le piu’ piccole.

In Svizzera abbiamo una realtà immune dalla deriva finanziaria occidentale, che pero’ proprio per questo è caduta sotto il mirino degli Stati Uniti e rischia di soccombere.

Dal punto di vista dell’investitore, la conclusione piu’ importante che possiamo trarre è che questa diversità di scenari esclude la possibilità di poter inserire sotto lo stesso calderone (crisi del 2008) le banche americane e Crédit Suisse.

I fautori dell’ipotesi di una “riedizione del 2008” avevano bisogno del crollo di una grande banca sistemica, in modo da far dimenticare le specificità delle banche americane in default, lontane anni luce dalla situazione del 2008.

Ma Crédit Suisse non puo’ assumere questo ruolo, perché le condizioni che hanno portato al suo default non sono legate ad alcun fattore finanziario tipicamente occidentale, come il denaro fiat, la svalutazione, l’inflazione, le banche centrali e chi piu’ ne ha piu’ ne metta.

Crédit Suisse è caduta a causa della guerra, non dell’economia corrotta occidentale. Dopo questo articolo, ci sono pochi dubbi su questo, spero…

Il sistema bancario USA non sta fallendo, ma va verso il monopolio

Questa crisi finanziaria è molto diversa da quella del 2008 in tanti aspetti, uno dei quali sarà l’argomento di questo articolo.

Diversamente dal 2008, questa crisi non riguarda il sistema finanziario USA nel suo insieme, ma un suo settore specifico: quello delle banche di medie e piccole dimensioni.

Riassumeremo qui di seguito cosa ha portato al default queste banche che dovrebbero essere la parte sana del sistema bancario americano. E perché al contrario le banche “cattive”, quelle che investono in derivati e assicurano pochi servizi ai cittadini e alle imprese, sono per ora immuni da questo default .

Alla fine di questo racconto, risulterà evidente come, grazie a questa crisi, le grandi banche sistemiche americane, tipo J.P. Morgan, Citi, Bank of America e altre, stiano creando un vero monopolio finanziario in America.

Che la nascita di questo monopolio sia un disegno intenzionale o un semplice processo di adeguamento alle mutate condizioni finanziarie, lo scopriranno forse gli storici del futuro.

Per adesso possiamo solo constatare l’esistenza di questo trend.

Basilea III e la trappola della Fed verso le banche commerciali americane

Dopo la crisi del 2008, le banche di tutto il mondo si accordarono per una riforma del sistema (chiamata Basilea III) che introdusse misure di protezione da possibili rischi futuri.

Queste misure includono obblighi per le banche di copertura della liquidità, di mantenimento di riserve di emergenza presso la Fed e di limiti all’entità dei prestiti concessi ai clienti.

In molti paesi questi obblighi sono stati estesi a tutte le banche. Negli USA invece solo alle grandi banche sistemiche.

Ecco il motivo per cui oggi in America sono proprio le banche medio-piccole, prive del sistema di protezione di Basilea III, ad andare in crisi, mentre al contrario le grandi banche sono quasi del tutto immuni dal contagio e per giunta sembrano anche voler approfittare di questo vantaggio.

Quando Basilea III fu introdotta in America nel 2020, l’esenzione per le banche commerciali fu vista come una concessione alle lobby bancarie, molto potenti in America.

Oggi pero’ questa esenzione è diventata un boomerang che si ritorce contro queste banche.

E viene da pensare se non sia stata fin dall’inizio una trappola tesa dalla Fed…

Vediamo perché…

La crisi del 2023 è stata provocata dai buoni del tesoro USA che la Fed ha trasformato in “titoli tossici”

Come abbiamo detto in questo articolo, la “miccia” che sta scatenando i recenti default bancari in America sono in sostanza i bank run dei clienti.

Abbiamo appena detto che le banche medio piccole americane, esenti da Basilea III, non sono obbligate a mantenere soldi in riserva presso la Federal Reserve.

Quindi in casi di forti bank run queste banche non hanno liquidità di riserva per fare fronte ai flussi in uscita dai loro depositi.

In molti casi, l’unico modo per queste banche per fare cassa è liquidare la tipologia prevalente di asset da loro detenuti, ossia i buoni del tesoro che, grazie ai continui aumenti dei tassi decisi dalla Fed, sono arrivati a prezzi ridicoli e quindi comportano forti perdite per la banca che cerca di venderli.

Percio’ tra i protagonisti di questa crisi non ritroviamo i famosi derivati che portarono al default la Lehman Brothers, ma piuttosto i buoni del tesoro, resi “tossici” dalla Fed con le sue dissennate politiche di inasprimento monetario.

Anche questa è una notevole differenza tra oggi e il 2008…

Ad ogni modo, il meccanismo di default che ti ho appena descritto è un fatto assodato e lo puoi ritrovare ormai in tutti i media finanziari.

In questo articolo pero’ desidero cercare le cause piu’ profonde di questo default.

Per capire questo default non guardare solo agli asset della banca, ma al suo modus operandi

Man mano che le banche sono andate in default in queste settimane, eravamo tutti concentrati sul tipo di asset prevalente della banca o sulla sua clientela.

Quando è andata in default Silvergate, abbiamo dato la colpa alle criptovalute.

Quando è toccato alla Silicon Valley Bank e alla Signature, abbiamo pensato che vi fosse una crisi anche nel mercato degli immobili commerciali o nelle startup.

Nel meccanismo di default descritto nel paragrafo precedente è evidente che i buoni del tesoro abbiano avuto un ruolo.

Ma fin qui stiamo solo guardando il dito e non la luna…

Il vero meccanismo di questi default è molto piu’ generico e puo’ colpire qualsiasi banca commerciale, non importa il suo tipo di clientela o gli asset che detiene.

Uno studio della J.P. Morgan di cui non abbiamo il link, perché destinato ai clienti della banca, rivela i parametri di rischio per questo particolare genere di default del 2023.

La tabella qui di seguito ne fa una sintesi:

In sostanza, qualsiasi banca che faccia un servizio a cittadini e imprese è attualmente a rischio.

Questo tipo di banche infatti, che definiamo “banche commerciali”, hanno un tipo di bilancio molto diverso dalle grandi banche sistemiche.

In queste banche, i soldi e gli asset depositati dai clienti (cittadini e imprese) sono in percentuale molto superiore rispetto agli asset della banca (e agli asset di riserva, che come abbiamo detto, sono scarsi grazie all’esenzione da Basilea III).

Inoltre, anche la percentuale di prestiti e di servizi di custodia per i clienti è superiore rispetto alle banche sistemiche.

Lo studio di J.P. Morgan è chiaro: il problema non è il campo di attività della banca, ma proprio il fatto che la banca fornisca dei servizi ai propri clienti, invece di giocare coi derivati usando i grassi interessi sulle riserve che la Fed regala alle grandi banche sistemiche per non fare nulla.

Quindi è proprio una concezione del servizio bancario che sta andando in crisi.

Le banche che assicurano servizi concreti a persone e imprese, sono penalizzate, mentre sono premiate le banche sistemiche, che assistono invece la Fed e gli altri organismi regolatori nella modulazione (spesso nella manipolazione) generale del sistema finanziario.

Stiamo andando verso un regime di monopolio delle grandi banche?

In questo recente articolo abbiamo descritto i tentativi della J.P. Morgan e di altre banche per assicurarsi il monopolio delle criptovalute.

A questo punto pero’, la serie di default della scorsa settimana ci invitano ad allargare la visuale e a comprendere che forse è in atto un processo di centralizzazione e monopolio su piu’ vasta scala.

Come nel caso delle criptovalute, anche qui ci sono stati dei colpi bassi portati alle istituzioni piu’ deboli per innescare i default.

Tutto è iniziato, nel mondo cripto, con i default di Terra-Luna e della piattaforma FTX.

Nella nostra newsletter gratuita abbiamo spiegato ampiamente come questi due default sono stati innescati provocando intenzionalmente dei bank run.

Ora la moda di questi default pilotati si è spostata al sistema bancario, almeno secondo questo articolo (a pagamento) di The Informer, che rivela le manovre della J.P. Morgan per spingere al bank run i clienti della Silicon Valley Bank.

Non possiamo non notare che la J.P. Morgan non ha nemmeno mobilitato fondi di salvataggio per soccorrere questa banca, mentre lo ha fatto per la First Republic Bank, che infatti ha evitato il default subito dopo il crollo della Silicon Valley Bank.

L’idea poi che la Federal Reserve, con le sue politiche monetarie e la gestione di Basilea III, abbia in qualche modo creato le condizioni adatte per questo tipo tutto speciale di default non è nostra, ma viene espressa nientemeno che da Bloomberg (articolo a pagamento anche questo).

Cosi’ come l’idea che sia in atto un processo di centralizzazione e monopolio delle grandi banche non ce la siamo inventata, ma è condivisa da molti, come ad esempio il cofondatore di Paypal David Sacks.

Insomma, anche se per ora non ci sono dati sufficienti per dire che questi default siano stati pianificati a tavolino come quelli avvenuti nel mondo cripto, certo le analogie di queste crisi con i default di FTX e Terra Luna sono sospette. Cosi’ come lo sono anche le convergenze molto suggestive tra le politiche della Fed e gli interessi della J.P. Morgan e delle altre banche sistemiche americane.

Lontani anni luce sono le circostanze di questa crisi rispetto a quella del 2008, nella quale le élites finanziarie furono colte di sopresa dalla crisi e corsero ai ripari per salvare tutto il sistema, non solo una parte di esso.

Diversamente che nel 2008, ora il ruolo dei media e della banca centrale nel “preparare” questa crisi, diffondendo da tre anni a questa parte un clima di sfiducia, paura e diffidenza nelle masse è stato un elemento basilare.

Senza questa adeguata “peparazione”, le masse non sarebbero state cosi’ pronte a effettuare i bank run con cui stanno distruggendo le banche “sane”, praticamente tagliandosi i rami su cui sono sedute (cioè eliminando i pochi servizi seri su cui potevano contare) e aprendo la strada al monopolio delle banche sistemiche, molto meno user friendly nei confronti della società.

E se fossimo vicini all’avvento del CBDC?

Di fronte a questi avvenimenti, non possiamo non pensare che questo monopolio in prospettiva possa condurre all’avvento del “dollaro digitale” della Fed (CBDC).

L’accentramento e la semplificazione del sistema, l’eliminazione dei servizi piu’ vicini alla società, ma antieconomici in un’ottica di accentramento governativo, sono senz’altro delle condizioni che chi volesse instaurare una CBDC dovrebbe realizzare in anticipo.

Quindi, se questo processo di monopolio bancario verrà completato con “successo” (cioè senza la contemporanea e imprevista distruzione di tutto il sistema), certamente sarà piu’ facile in futuro impostare una CBDC governativa.

Non ci sono le prove per sostenere che questo monopolio sia stato concepito fin dall’inizio con questa finalità, ma certamente le due cose, centralizzazione finanziaria e CBDC, sono strettamente collegate.

Tuttavia l’impostazione di una CBDC è un processo molto complesso, che non include solo aspetti tecnici, ma anche politici, sociali, economici, giuridici, geopolitici, militari, ecc.

Non c’è lo spazio qui per descrivere tutti questi aspetti, ma negli ultimi anni ne abbiamo parlato ampiamente nella nostra newsletter gratuita e nel nostro canale Telegram.

La nostra opinione, in due parole, è che i test sui CBDC effettuati dai Cinesi e da altre entità governative in vari paesi hanno finora evidenziato molti piu’ problemi che soluzioni, soprattutto nell’integrazione dei CBDC di vari paesi in un sistema di scambio internazionale.

L’idea poi di un CBDC universale, comune a tutti i paesi del mondo, è del tutto irrealistica, sopratutto ora che siamo giunti alla fine della globalizzazione.

Tuttavia è innegabile che vi sia un processo di centralizzazione e iperdigitalizzazione finanziaria (nei singoli paesi, non a livello universale) che potrebbe arrivare ad esiti ora difficili da prevedere.

Il CBDC è un sistema molto complesso e non va confuso con i progetti di digitalizzazione annunciati da alcuni paesi e dalla BCE. Tali progetti sono una preparazione ai CBDC, ma la loro attuazione potrebbe evidenziare dei problemi che a un certo punto costringerebbero a rallentare, invece che accelerare l’avvento del CBDC.

Non bisogna considerare le èlites come delle divinità onnipotenti. Anche loro, come tutti noi, vanno avanti per tentativi…

Un suggerimento…

Data la complessità di questo processo, e il fatto che si stia affermando a colpi di crisi e di traumi sociali, ti suggerisco di tenerti informato costantemente, facendo pero’ attenzione a scegliere con cura le tue fonti di informazione.

Sono assolutamente da evitare i media mainstream, i social complottisti e quelli che vendono metalli preziosi (siamo appassionati di preziosi e ci sono ottimi siti su questo argomento, ma vanno evitati gli opportunisti).

Nei momenti di crisi, sia l’informazione mainstream che quella catastrofista rischiano di mandarti fuori strada, perché si muove al di fuori di una seria analisi dei dati e di una adeguata preparazione scientifica.

Nel fine settimana della crisi bancaria americana ho osservato soprattutto i social complottisti: non ce n’è stato uno che abbia detto ai lettori esattamente cosa fare.

Mi ha molto colpito questo fatto.

Per anni questi social infondono paura e incertezza per attirare un maggior numero di lettori, ma poi quando c’è davvero una crisi in atto, diventano uccel di bosco e ti lasciano a piedi.

Tutto il contrario del nostro canale Telegram, dove normalmente pubblichiamo informazioni oggettive, utili e prive di interferenze “emotive” che confondono i lettori.

Guarda tu stesso pero’ sul canale, andando a ritroso fino ai nostri post del famigerato “fine settimana dei default”: vedrai che in quelle ore abbiamo abbandonato la nostra abituale compostezza e ci siamo rimboccati le maniche, dando immediatamente (e gratuitamente) informazioni precise su cosa fare e quali servizi usare…

Non ho visto altri canali di informazione fare altrettanto…

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