Il tentativo di Trump di riprendere il controllo del flusso di dollari al di fuori degli Stati Uniti fa parte di uno schema piu’ ampio con cui la sua amministrazione sta cercando di indebolire l’enorme rete di entità pubbliche e private, governative e/o multilaterali che da decenni influenzano le politiche americane al di fuori del suo paese.
Una descrizione, anche sommaria, di questa complessa struttura che coinvolge governi, multinazionali, istituzioni finanziarie, banche centrali, organizzazioni umanitarie, istituzioni universitarie, associazioni culturali, enti di beneficenza sovranazionali, ecc. sarebbe impossibile nello spazio di questo articolo.
Ci limitiamo perciò a dare un’idea, assolutamente parziale e limitata, del supporto finanziario di questa immensa rete che si basa sui flussi del dollaro offshore, cioè sui dollari creati e distribuiti al di fuori del controllo della banca centrale e del Tesoro statunitensi.
Il circuito del dollaro offshore in due parole
La creazione e la diffusione del dollaro al di fuori dell’America tecnicamente si definiscono come circuito dell’euro dollaro; un termine fuorviante, perché fa pensare che vi siano coinvolte due valute: l’euro e il dollaro, mentre invece è una cosa che riguarda solo il dollaro e i titoli di stato denominati in questa valuta. Noi perciò useremo il termine piu’ comprensibile di “dollaro offshore”.
Il dollaro offshore consente di finanziare qualsiasi attività che riguarda gli Stati Uniti, ma la cui iniziativa parte da governi o entità varie che non sono negli Stati Uniti.
Un esempio per tutti è la complessa rete di aziende, governi ed entità pubbliche o private che fanno capo al World Economic Forum e che svolgono attività prettamente extraterritoriali e sovranazionali, ma si finanziano con una valuta nazionale: il dollaro.
Già sotto l’amministrazione Biden diversi Stati americani, grazie alla loro capacità di legiferare in modo autonomo, presero le distanze dalle politiche di questa entità sovranazionale. E tuttavia, ancora oggi nessuno può impedire che il World Economic Forum continui a usare la valuta americana per queste attività contrarie alla volontà dei cittadini di diversi Stati americani.
Per assicurarsi il flusso necessario di dollari al di fuori del controllo statunitense, le entità di questo tipo possono agire in due modi:
- se sono residenti in uno stato sovrano, come le ONG, le Università, le banche, ecc., devono fare in modo che le politiche di tale stato supportino un costante avanzo commerciale nei confronti degli USA attraverso cui i dollari possano entrare nel paese liberi da forme di arbitraggio (dazi, armonizzazioni fiscali di qualche tipo, ecc.).
- se sono entità extraterritoriali, come l’Unione Europea, la City di Londra, ecc., devono fare affidamento sui paradisi fiscali offshore che emettono debito americano e diffondono il dollaro in modo del tutto autonomo rispetto alla Federal Reserve.
Cercherò ora di dare qualche esempio di questo schema.
Il nuovo premier canadese come garante di due piazze importanti offshore: Canada e Gran Bretagna
Di recente in Canada è stato eletto un nuovo premier, Mark Carney, dotato di un profilo professionale molto istruttivo per gli scopi di questo articolo.
Il nuovo premier canadese che, tra parentesi, è membro del Consiglio della Fondazione del World Economic Forum, ha iniziato la sua carriera negli anni ’90 del secolo scorso presso la Goldman Sachs, proprio quando questo istituto, da una parte forniva una consulenza alla Russia durante la crisi finanziaria del 1998 e dall’altra scommetteva in borsa contro la capacità del paese di ripagare il suo debito.
Spesso i funzionari coinvolti in attività opache delle istituzioni per cui lavorano vengono poi promossi nel settore pubblico.
Infatti Carney fu successivamente designato capo del Dipartimento Canadese delle Finanze e poi Vice Governatore della Banca del Canada, di cui è stato poi Governatore dal 2008 al 2013.
Infine, dal 2013 al 2020 ha ricoperto il ruolo di Governatore della Banca d’Inghilterra.
L’aver prestato servizio ai massimi livelli sia in Canada che in Gran Bretagna indica che attualmente Carney è il miglior garante possibile della continuità nella convergenza di interessi di entrambi i paesi. Dunque la sua elezione a premier canadese – cioè, secondo le inusuali regole del Commonwealth, a rappresentante della Corona Britannica in Canada – è una specie di barriera di protezione contro eventuali decisioni di Trump che potrebbero minare tali interessi.
Ma perché Canada e Gran Bretagna dovrebbero sentirsi minacciati da Trump?
Per capirlo, facciamo una breve storia del sistema finanziario offshore derivato dall’ex Impero Britannico.
I paradisi fiscali di origine britannica
Non molti sanno che la City di Londra è una entità extraterritoriale della Gran Bretagna, come lo è il Vaticano rispetto all’Italia.
La City è gestita da un’organizzazione chiamata City of London Corporation, una società privata che svolge tutte le funzioni di un consiglio locale, con tanto di polizia privata e tribunali privati.
Questa situazione nasce negli anni ’50 del secolo scorso, al tempo del collasso della sterlina e della sua sostituzione col dollaro come valuta globale.
A quell’epoca infatti, per proteggere il valore della sterlina, la Gran Bretagna limitò i prestiti all’estero da parte delle proprie banche.
Questo fatto spinse le banche inglesi a stringere un accordo non scritto con la Banca d’Inghilterra, che accordò loro il permesso di operare nuovamente come intermediarie tra due entità, purché non fossero residenti in UK e purché usassero una valuta estera, cioè il dollaro.
Forti di questo incredibile privilegio, le banche inglesi svilupparono, inizialmente nella City di Londra, un mercato sovranazionale per i dollari denominato London Eurodollar Market (ecco il motivo di quello strano nome: circuito dell’eurodollaro, che si intende: circuito europeo del dollaro).
E la Banca d’Inghilterra, per nulla impensierita dalla piega che prendevano le cose, diede il suo contributo dichiarando che le transazioni del London Eurodollar Market, svolgendosi al di fuori del territorio nazionale, non sarebbero rientrate nella sua responsabilità di regolamentazione.
Come prevedibile, gli stati, le entità governative e private (anche quelle americane), le multinazionali e i cartelli mafiosi di tutto il mondo iniziarono a riversare montagne di liquidità in dollari in questo circuito, diventato dall’oggi al domani completamente impermeabile ad ogni autorità e regolamentazione. Al punto che, da agli anni ’60 in poi, la City di Londra iniziò a stabilire filiali offshore negli ex avamposti dell’Impero Britannico dotati di una forte legislazione sulla segretezza bancaria.
Ecco, in poche parole, come sono nati i paradisi offshore del dollaro.
Il potere crescente dei paradisi fiscali degli ultimi 12 anni
Il debito del Tesoro detenuto da tutte le entità straniere è balzato dell’11,5% anno su anno (+$880 miliardi), raggiungendo il massimo storico di $8,50 trilioni.
Dal 2015 al 2023 queste partecipazioni erano un pò calate, dal picco del 34% nel 2015 al minimo del 22,2% nel 2023. Il calo era avvenuto soprattutto negli ultimi due anni, a causa delle politiche restrittive della Federal Reserve iniziate nel 2022, che avevano ridotto la circolazione di titoli di stato USA nel sistema.
Ma dall’ottobre 2023 le entità straniere hanno ripreso ad incrementare le loro partecipazioni a un ritmo più veloce fino a raggiungere il 24,1%, il livello più alto in due anni.
Pochi sanno che i maggiori detentori dei titoli di stato USA all’estero non sono la Cina o il Giappone, bensi’ sei principali centri finanziari, che ne posseggono per un valore pari a $2,51 trilioni: Londra, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Isole Cayman e Irlanda.
Lo spostamento del flusso di dollari fuori dagli Stati Uniti verso questi centri finanziari è costantemente aumentato dal 2012 ad oggi; periodo nel quale hanno più che triplicato la loro esposizione al debito USA, arrivando a un record di 2,51 trilioni di $.
Negli ultimi 12 anni, anche i paesi dell’area euro hanno più che triplicato la loro esposizione al debito USA, da 534 miliardi di $ nel 2012 a un record di 1,69 trilioni di $ ad agosto.
Questo incremento dell’esposizione verso il debito americano da parte dei paradisi fiscali e dell’Europa è andato di pari passo con la contemporanea dismissione di una moderata porzione di questo debito da parte di due fra i grandi detentori storici di questi titoli: Cina e Giappone.
Nel periodo tra il 2022 e il 2024, infatti, questi due paesi hanno effettuato vendite insolitamente consistenti di titoli in dollari per fare fronte alle crisi di liquidità causate dalle politiche restrittive della Fed e dalla situazione commerciale complicata dalla guerra in Ucraina e la progressiva separazione del mondo in due blocchi contrapposti a oriente e occidente.
Ora, quando il Giappone e la Cina effettuano queste vendite, i titoli di stato americani non rientrano nella disponibilità degli Stati Uniti, ma vengono acquistati dai centri offshore già citati e dai paesi dell’UE, che li redistribuiscono per alimentare innumerevoli attività, alcune delle quali sono correlate alle politiche USA, specialmente di parte democratica, ma molte altre sono del tutto estranee agli interessi americani.
A loro volta, anche Cina e Giappone possono attingere da questi centri offshore per effettuare le loro attività sovrane in dollari senza alterare troppo la loro bilancia commerciale e il corso delle loro valute nazionali.
Quindi alla fine la gestione dei dollari offshore da parte dei principali paradisi fiscali e dei paesi dell’UE conviene un pò a tutti.
Basi pensare che la Cina, ad esempio, pur avendo stretto accordi coi paesi BRICS per fare transazioni in valute alternative al dollaro, ha ancora bisogno di tanti dollari per le sue politiche neo coloniali africane.
Si, perché i paesi del “club privilegiato” dei BRICS possono certamente permettersi compensazioni commerciali nelle loro valute, garantite dal cambio quasi fisso dello yuan e del rublo con l’oro, ma ai paesi africani tocca ancora il vecchio sistema coloniale basato sull’indebitamento, naturalmente effettuato per mezzo di titoli di debito in dollari prestati dalla Cina…
I titoli di debito in dollari che la Cina usa in Africa provengono appunto da banche offshore, che nel caso cinese si trovano soprattutto nella piazza di Hong Kong, attualmente impegnata in una contesa selvaggia con la City di Londra (anche a colpi di omicidi, come abbiamo spiegato qui e qui. Ma questa è un’altra storia…)
Come abbiamo visto, anche i paesi UE e la stessa Banca Centrale Europea, che a sua volta è una entità extraterritoriale della Germania, è parte di questo circuito di dollari offshore ed è giustamente interessata, in questo frangente storico, a rinsaldare gli interessi con la Banca d’Inghilterra, che come abbiamo visto è in pratica l’ispiratrice e la promotrice storica di questo sistema del dollaro offshore.
Ecco quindi che possiamo iniziare a unire tutti i puntini…
Canada e Banca d’Inghilterra all’offensiva contro Trump
Da quando Trump ha iniziato a minacciare (seriamente o meno, questo è da vedersi) il sistema del dollaro offshore per mezzo di dazi, trattative commerciali unilaterali e ridimensionamento dei centri di potere americani che utilizzano i dollari offshore all’estero, alcuni fra i principali destinatari dei flussi di dollari offshore, ossia le entità governative o private europee, inglesi e canadesi hanno deciso di concordare contromisure adeguate.
Affinché le transazioni di dollari offshore possano continuare a fluire nella City di Londra e a Bruxelles per finanziare le innumerevoli attività delle élites di questi paesi e quelle extraterritoriali a loro legate, è vitale che gli USA continuino ad avere un deficit commerciale con alcuni paesi chiave.
Questi paesi devono poter continuare a ricevere il flusso necessario di dollari con cui pagare le cedole dei titoli denominati in dollari detenute dai paesi che fanno parte del sistema del dollaro offshore.
Ecco quindi che tra Europa e Banca d’Inghilterra salta fuori l’idea di promuovere il Canada in questo ruolo chiave. Ed ecco il motivo per cui ad un certo punto sale al potere in Canada Carney, il garante della continuità di scopi tra il Canada e la Banca d’Inghilterra.
E’ probabile quindi che il Canada si affiancherà al Giappone come luogo privilegiato dei famosi “carry trade”, ossia di quelle transazioni in cui la valuta locale, lo yen o il dollaro canadese viene presa in prestito per investire in titoli denominati in dollari USA che forniscono rendimenti superiori. I titoli cosi’ ottenuti, verrebbero poi depositati nelle banche canadesi, che, assieme alle banche Giapponesi, sempre piu’ in crisi di liquidità, diventerebbero importanti serbatoi di riserva per i soliti centri offshore che abbiamo citato e per i paesi europei.
A questo punto appare chiaro il motivo per cui Trump mostri di voler indebolire la bilancia commerciale canadese con i dazi (e perché no? anche con accordi commerciali specifici con regioni del Canada meno allineate col governo locale).
Se infatti il Canada non fosse piu’ in grado di avere una bilancia commerciale positiva nei confronti degli USA, il flusso di dollari USA nel paese si ridurrebbe e quindi il progetto di avere un serbatoio alternativo al Giappone salterebbe.
Conclusione
La descrizione del ruolo del Canada nel complesso sistema del dollaro offshore ci ha costretto a scrivere un articolo piuttosto lungo.
Si pensi a quante pagine sarebbero necessarie per descrivere gli stessi meccanismi che coinvolgono tanti altri paesi e anche moltissime entità pubbliche o private, governative o sovranazionali disperse in tutto il mondo.
Il Canada è solo un esempio con cui ho cercato di spiegare il motivo dei dazi e delle trattative commerciali unilaterali che Trump sta portando avanti con il resto del mondo.
La stessa partita che si gioca in Canada è in corso in tantissime altre parti del pianeta.
Sono in ballo attività extraterritoriali che si diramano in quasi tutti i paesi del mondo, inclusa l’Italia, a beneficio di entità che fanno capo agli USA o ad altri centri di potere, soprattutto europei e britannici.
Tutte queste attività rischiano di avere un certo ridimensionamento delle risorse necessarie (dollari offshore) per la loro continuazione.
Per tale ragione, le élites che le hanno create e promosse hanno ingaggiato una sfida all’ultimo sangue per la loro sopravvivenza.