Le banche di alcuni paesi europei hanno già dichiarato la loro intenzione di far pagare i depositi ai loro clienti con i tassi negativi.
In Italia invece una analoga iniziativa annunciata da Unicredit ha provocato le ire delle altre banche.
Ma questo non vuol dire che le banche italiane non abbiano un disperato bisogno di liquidità come qualsiasi altra banca europea.
L’inconsistenza di tutto il sistema finanziario europeo, del quale fanno parte le banche italiane, è apprezzabile a colpo d’occhio mettendolo a confronto con quello americano.
Le cifre del nuovo QE americano appena varato (ma non dite a Powell che lo chiamiamo così) ammontano ad acquisti di titoli di stato per 60 miliardi di dollari al mese che dovrebbero incrementare il bilancio della banca centrale di almeno 720 miliardi di dollari entro il secondo trimestre del 2020.
Quest’ultima cifra è quasi pari all’intero patrimonio attuale della BCE, che ammonta a 827 miliardi.
Il nuovo QE europeo è a sua volta limitato a soli 20 miliardi al mese, ossia poco meno di un miliardo per ogni singolo stato dell’eurozona. Una cifra insufficiente per assicurare alle banche di tutti gli stati il loro fabbisogno di liquidità.
Le banche europee particolarmente esposte alle perdite dei loro asset speculativi, come la Deutsche Bank, sono sempre più restie a prestare soldi ad altre banche, rendendo ancora più drammatica la mancanza di liquidità di tutto il sistema, malamanete sostenuta da un QE che a confronto di quello americano è un colpo sparato da un fucile giocattolo.
Alla disperata ricerca di liquidità come le loro sorelle europee, le banche italiane non possono però imporre tassi negativi a cuor leggero come farebbe qualsiasi banca tedesca.
Legate come sono alla politica, le banche italiane devono contribuire a mantenere l’ordine pubblico, dando il piu’ a lungo possibile l’illusione di stabilità e di tranquillità per compensare i continui rovesci governativi.
Ecco perché molte di esse stanno progettando metodi piu’ creativi per reperire liquidità dai clienti in modo dissimulato.
In questo enorme gioco di camuffamento, pur di evitare di parlare di “tassi negativi” le banche chiamano a raccolta l’intero sistema finanziario italiano per aumentare il collocamento di nuovi prodotti finanziari creati per l’occasione e guadagnare dalle laute commissioni che ne derivano.
In questo sforzo “patriottico” congiunto, tutti devono collaborare a questo prelievo di liquidità dai clienti ignari.
Dalle Poste Italiane ai pochi brokers superstiti, come Binck Bank e Fineco, tutti sono chiamati a mettere in secondo piano le proprie attività e a diventare da un giorno all’altro mediatori di questi nuovi prodotti per conto delle banche (ne abbiamo parlato in dettaglio in questo importante articolo).
Ormai non c’è un cliente delle Poste o di qualche broker italiano a cui non sia stato già proposto uno di questi nuovi prodotti. E chi ha la malaugurata idea di aderire, accetta anche (senza saperlo) di pagare doppie commissioni: quelle cioè proprie della banca che colloca il prodotto e quella del mediatore, che pure deve avere la sua parte di torta…
Ma di che tipo di prodotti stiamo parlando?
Oltre ai soliti che si possono trovare nelle banche (obbligazioni e fondi comuni di tutti i generi), sono stati inventati prodotti fatti apposta per colpire l’attenzione dei clienti intercettati al di fuori del circuito bancario (quelli cioè che investono con i brokers o con le Società di Intermediazione).
Le due categorie di prodotti più comuni sono:
- Certificati
- Pacchetti azionari a rendita condizionata
I Certificati sono dei veri e propri derivati che hanno per sottostante qualsiasi cosa: dagli indici alle materie prime alle azioni.
I Pacchetti azionari sono dei contenitori in cui vengono allocati pochi titoli azionari (tre o quattro al massimo), che vengono offerti al cliente con la promessa di concedere un rendimento quasi garantito, a meno che il rendimento dei tre o quattro titoli non scenda al di sotto di una certa percentuale.
In questo articolo non c’è lo spazio per analizzare in profondità le caratteristiche di questi strumenti, che sono davvero molto variegati e numerosi all’inverosimile (anche i nomi che li contraddistinguono sono innumerevoli e fantasiosi).
Mi limito a far notare due elementi che li rendono impraticabili.
Il primo, come ho già accennato, sono le commissioni.
Chi aderisce a questi strumenti dovrà pagare le commissioni al broker o alle Poste (per fare degli esempi), ma anche alla banca che colloca lo strumento, di cui la Posta o il broker è solo un intermediario.
Se i fondi comuni ti fanno pagare minimo l’1% l’anno sul capitale investito, con questi strumenti devi quindi prepararti a pagare di più.
Su un investimento di 50.000 euro, l’1% corrisponde a 500 euro l’anno. Il che vuol dire deprezzare il capitale iniziale dell’1% (molto più di un tasso negativo, se fosse applicato a un deposito di pari entità).
Ma purtroppo c’è un secondo fattore che contribuisce a deprezzare il capitale investito.
Chi ha sottoscritto ad esempio uno di quei famigerati pacchetti azionari si sarà accorto di aver sottoscritto solo per una parte del controvalore (ad es., invece del 100% lo strumento valeva in quel momento il 97%). Da ciò possiamo dedurre che, a prescindere dalla rendita che dovrebbero “garantire”, questi prodotti hanno anche un valore di mercato che oscilla tra il 100% e percentuali inferiori (un pò come avviene per le obbligazioni).
Anche se in alcuni casi (come ad es. nei Certificati) questi prodotti fossero quotati sul mercato ufficiale, cioè nella borsa italiana o al SeDeX, il “vero” mercato di questi strumenti lo farebbe sempre la controparte che li emette.
In altre parole, il valore di tali strumenti è determinato in modo molto meno trasparente rispetto a come avviene per i titoli di una borsa ufficiale.
Chi ti garantisce quindi che alla chiusura dello strumento, la banca emittente non decida che in quel momento conviene vendere il prodotto al 65% o al 63%, cioè a un valore minore rispetto a quello a cui avevi fatto la sottoscrizione?
Su quali basi viene presa questa decisione? Ovviamente, è una domanda alla quale solo la banca potrebbe risponderti. Il che è come chiedere all’ortolano se le sue mele sono buone…
Ecco quindi che dietro l’angolo ti aspetta un secondo deprezzamento del capitale investito…che sommato alla spesa per le commissioni rendono il tuo “deposito” molto, molto più costoso del semplice prelievo che ti farebbe una banca tedesca che volesse importi tassi negativi!
Morale della favola: per evitare di inquietare gli Italiani con i tassi negativi, le banche italiane collocano questi nuovi prodotti, ottenendo un triplice effetto negativo:
- obbligano gli utenti a deprezzare il capitale ben oltre la soglia di deprezzamento di un tasso negativo
- snaturano altri operatori finanziari (brokers e altri intermediatori indipendenti di varia natura), trasformandoli in meri intermediari delle banche
- promuovono una involuzione e un irrigidimento del mondo finanziario italiano, riducendo le diversità e monopolizzando strumenti e mercati.
La soluzione, per chi investe servendosi di istituti di intermediazione, è di selezionare con maggior attenzione i propri consulenti, diffidando di chi ha perso la propria identità e si limita ormai a proporti pacchetti e strumenti che appartengono ad altri istituti.
Per chi invece investe direttamente sulle piattaforme di trading, consiglio di consultare i nostri contenuti, ideati proprio per evitare i rischi crescenti che i trader italiani si trovano ad affrontare, a volte inconsapevolmente, in un ambiente dominato dal monopolio bancario che riduce sempre più gli spazi di manovra necessari per ottenere rendimenti sufficienti.
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Richard Clarck, coordinatore di Strategie Portfolio