Uno dei fattori economici più citati e incompresi dagli analisti finanziari è la politica dei tassi d’interesse della Federal Reserve (Fed), la banca centrale americana.
La Fed ha alzato i tassi d’interesse solo una volta quest’anno, a dicembre scorso. Ma in tale occasione il suo Presidente, Janet Yellen, ha anche affermato di voler alzare i tassi altre tre volte nel 2017.
Lo farà davvero?
Se lo sapessimo, avremmo un’arma molto potente per capire come andranno la borsa e i mercati delle materie prime nel 2017.
Noi di Segnali di Borsa vogliamo fornirti le basi che ti permetteranno di rispondere a questa domanda con sufficiente precisione.
E siamo in grado di farlo, non perché siamo dei maghi o dei geni, ma perché in realtà gli obiettivi della Fed sono abbastanza chiari e prevedibili, purché ci si dimentichi di quanto abbiamo appreso all’università (se abbiamo studiato economia) e ci si concentri solo su quanto la Fed stessa dice di voler fare.
Per cominciare, devi considerare che la decisione della Fed di alzare i tassi d’interesse nel 2017 segue queste tre semplici regole:
- i tassi verrano alzati finché si raggiungerà un tasso dei bond a breve termine del 3,25%.
- questa soglia del 3,25% è il tasso medio minimo che si deve avere nel caso che un peggioramento della deflazione o una forte recessione richieda di dover abbassare i tassi d’interesse per combatterne gli effetti.
- il programma di alzare i tassi fino al 3,25% verrà interrotto ogni volta che ci sarà un aumento della disoccupazione o un peggioramento degli indicatori economici americani.
Vediamo rapidamente il senso di questi tre punti.
Punto primo.
Anzitutto, fà attenzione: abbiamo detto che la Fed vuole alzare al 3,25% i tassi a breve termine.
Soffermiamoci su questo aspetto.
La Fed, come qualsiasi altra banca centrale, è in grado di fissare i tassi d’interesse solo delle obbligazioni di stato a breve termine.
Quando ad esempio sentiamo alla tivù che la Fed ha alzato i tassi dello 0,25% (com’è avvenuto il 14 dicembre scorso), vuol dire che il tasso dei titoli di stato USA a breve termine (cioè quelli a 3 e a 6 mesi) è stato alzato dello 0,25%.
I titoli di stato a lungo termine (a 10 e 20 anni, ad esempio) sono invece influenzati dal mercato e non sempre è possibile tenerli fissi su una certa soglia.
Il mercato dei titoli di stato USA infatti non è chiuso come lo è ad esempio quello degli analoghi titoli europei.
A Draghi basta comprare tutti i titoli di stato emessi nell’eurozona per tenere bassi i tassi d’interesse anche a lungo termine.
I titoli di stato americani invece sono uno strumento di scambio e controllo politico ed è importante che vengano comprati anche da altri paesi.
Ecco perché per la Fed è molto più difficile tenerne sotto controllo i tassi, visto che il libero mercato in questo caso ha molto più peso.
Di conseguenza, non c’è alcuna garanzia che i tassi a lungo termine seguano la stessa tendenza dei tassi a breve termine imposta dalla Fed.
La cruda verità è che il tasso a breve termine non è così importante per noi, quanto invece lo è il tasso medio complessivo dei titoli di stato, sia quelli a breve che a lungo termine.
Concentriamoci allora su questo tasso.
Per non mandare lo stato americano in bancarotta, questo tasso non deve superare l’1%.
Perché? Il motivo è che il governo ha un deficit debito/PIL così alto che non può permettersi di pagare tassi d’interesse più alti dell’1% ai creditori che sottoscrivono queste obbligazioni.
Quindi visto che il tasso veramente importante è quello medio (che non deve superare l’1%) e visto che questo è influenzato non solo dai tassi a breve, ma anche da quelli a lungo termine, qual’è la tendenza attuale di questi tassi?
Purtroppo da un paio di mesi a questa parte i tassi d’interesse dei titoli americani a lungo termine sono in crescita, perché molti paesi che li avevano sottoscritti li stanno vendendo, per potersi difendere dal dollaro forte che sta distruggendo le loro valute.
Se dunque questa tendenza al rialzo dovesse continuare, la media dei tassi tra titoli a breve e titoli a lungo termine verrebbe squilibrata e potrebbe superare la soglia di sicurezza dell’1%.
Ma questo la Fed lo sa bene…e ciò ci porta a considerare il…
…Punto secondo.
L’obiettivo del 3,25% per i tassi a breve è stato pensato proprio in vista di una difficoltà del governo a pagare i tassi d’interesse ai propri creditori.
Abbiamo detto che un aumento del 3,25% darebbe alla Fed lo spazio di manovra necessario per invertire la tendenza a rialzo dei tassi, quando per qualsiasi ragione questi superassero la capacità del governo di rimborsare i tassi d’interesse ai suoi creditori.
Cosa succederebbe quindi se il tasso medio di cui abbiamo parlato superasse l’1%, mettendo in crisi la capacità del governo a soddisfare i suoi creditori?
Secondo la Fed, se prima di allora i tassi a breve sono riusciti a crescere fino al 3,25%, basterà abbassarli per riportare all’1% il tasso medio.
Come abbiamo visto, però, il tasso medio non è influenzato solo dai tassi a breve, ma anche da quelli a lungo termine, che sono quasi del tutto in mano all’imprevedibilità del mercato (cioè ai paesi esteri che detengono gran parte dei titoli a lungo termine USA) e sono in grado di mettere i bastoni fra le ruote a qualsiasi programma di stabilizzazione dei tassi.
Inoltre, anche lo sforzo di raggiungere un aumento del 3,25% dei tassi a breve non è privo di contraddizioni.
E questo ce lo dimostra il…
…Punto terzo.
La Fed ha stabilito che il programma di arrivare al 3,25% non è un proposito assoluto scolpito nella roccia, ma può essere prudentemente interrotto ogni volta che i dati economici pubblicati dalle agenzie governative dovessero segnalare peggioramenti dell’economia americana.
Alla luce di quanto detto finora, possiamo capire il perché.
Se infatti l’economia peggiora, peggiora anche la capacità del governo a pagare i tassi d’interesse (che abbiamo detto essere la principale preoccupazione della Fed, ovviamente).
Quindi, il terzo punto ci dice che se altri fattori economici rischiano di rendere comunque difficile per il governo pagare i tassi d’interesse non è il caso di portare avanti il programma di incremento del 3,2% dei tassi a breve termine. Se dovesse succedere, la Fed lascierà i tassi al minimo storico come sono ora.
Ora, non so se percepisci la precarietà di tutto questo ragionamento della Fed.
In pratica, la Fed dice: “spero di fare in tempo ad aumentare del 3,25% i tassi a breve, perché solo così avrò lo spazio per abbassarli in caso di forte recessione. Al tempo stesso però, so che devo bloccare questo programma di aumento dei tassi ogni volta che l’economia darà segni di peggioramento…”.
Ma, cara Fed, se già ai primi segni di peggioramento tu non potrai più aumentare i tassi, come pensi di arrivare a un rialzo del 3,25% quando il peggioramento proseguirà fino a provocare una recessione?
In effetti, questa soglia del 3,25% la raggiungerai solo se l’economia andrà bene. Ma in tal caso, il tuo programma di rialzo dei tassi non sarà più necessario.
Se invece l’economia andrà male, la soglia del 3,25% non la raggiungerai mai, perché nelle fasi intermedie del peggioramento sarai stata costretta a interrompere il programma di aumento del tassi…
Ecco, spero di aver spiegato in modo chiaro in quali mani si trovi la politica monetaria del paese più importante della terra…
E spero che avrai capito come questo rialzo dei tassi programmato dalla Fed e tanto strombazzato dai media è tutto fuorché un dato certo nel panorama dell’economia americana e mondiale.
Se vogliamo descrivere la cosa in termini di chi ha studiato alla facoltà di economia, diciamo in termini tecnici che per impedire la caduta nella recessione dell’economia americana sono necessari 300-400 punti base di taglio dei tassi. Ciò perché nel passato è stata questa la quantità necessaria di tagli.
Purtroppo, per arrivare a permettersi un taglio di questo tipo, la Fed dovrebbe prima continuare ad alzare i tassi molto più su di quanto ha programmato. E dovrebbe farlo almeno fino al 2019.
Ma come abbiamo visto, se facesse questo, scatenerebbe proprio ciò che vorrebbe evitare, ossia porterebbe il governo al punto da non riuscire a pagare i tassi d’interesse dei titoli di stato.
E’ una strada senza via d’uscita.
La verità è che la Fed avrebbe dovuto iniziare ad alzare i tassi nel ciclo 2009-2013, invece di impegnarsi in quella folle corsa a ribasso dei tassi che ha completamente distrutto la solvibilità del governo e ha reso quest’ultimo dipendente interamente dalla stampa di denaro, e non dalla ricchezza dell’economia reale.
Ora che la Fed ha perso il treno per fare tutto questo, e una volta che il suo programma di rialzo dei tassi programmato a dicembre fallirà di fronte alla prima crisi recessiva o alla prima deflazione, esistono altre armi a disposizione?
Dopo l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, un’altra arma potrebbe diventare presto disponibile per la Fed.
Può darsi che il presidente degli Stati Uniti e il presidente della Fed siano davvero in conflitto fra loro come vogliono sembrare.
Ma finché fanno parte del governo degli Stati Uniti, avranno entrambi almeno un obiettivo in comune: nascondere l’insolvibilità dello Stato quanto più possibile, sperando che la bomba scoppi un giorno nelle mani di qualcun altro.
E cosa farà Trump per aiutare la Fed a mantenere questa illusione?
Semplice: gli basterà iniziare quel programma di spese pubbliche in infrastrutture che ha sempre promesso di fare in campagna elettorale.
La spesa pubblica infatti è un altro modo per immettere liquidità nel sistema, cioè per stampare dollari.
Finora la Fed ha stampato dollari per acquistare i titoli di stato, immettendo così liquidità nelle casse del governo e delle banche.
Ma la liquidità può essere immessa nel sistema anche in altro modo, finanziando cioè opere pubbliche faraoniche con la scusa di stimolare la crescita economica.
Per legge la Fed dovrà coprire queste spese emettendo nuovi titoli di stato che creeranno nuova liquidità per banche e casse statali.
Si spera così di continuare a creare nuovo debito e nuova liquidità (esattamente come prima, anzi forse anche peggio), mentre la spesa pubblica dovrebbe creare un circolo virtuoso di rilancio dell’economia reale.
Ma la storia dimostra che purtroppo più passa il tempo e più la nuova liquidità creata con l’emissione di nuovo debito perde di valore.
Se nel 2009, quando si iniziò ad instaurare questo perverso sistema, ogni dollaro di nuova liquidità immessa sul mercato, per quanto fasulla, riusciva a “gonfiare” di 1,50 dollari il PIL degli Americani, ora lo stesso dollaro copre a malapena 0,90 dollari di PIL.
Il sistema di creazione di liquidità dal nulla ha dunque ha iniziato a girare in perdita riguardo al PIL.
Anche se le spese in infrastrutture previste da Trump dovessero realmente creare nuovi posti di lavoro e stimolare alcuni settori produttivi, l’erosione di liquidità nel sistema (cioè la perdita di valore reale di questa liquidità) proseguirebbe indisturbata.
Per la semplice ragione che non si vuole (e ormai non è più possibile) eliminare il problema che sta alla base, cioè che se anche si riuscisse a creare nuova ricchezza, questa sarà sempre dipendente dalla contemporanea creazione di nuovo debito (cioè dall’emissione di nuovi titoli di stato).
E non c’è alcuna possibilità che il programma di spesa pubblica di Trump possa modificare questo stato di cose.
Man mano che questo sistema perde di efficacia, entrano sempre più in gioco gli altri fattori che finora erano stati abilmente mascherati da questa produzione artificiale di ricchezza, cioè:
- la liquidità basata sul debito incide negativamente sulla fiducia internazionale nei confronti del dollaro.
Risultato: più il valore reale di questa liquidità è inferiore al suo valore ufficiale, più gli altri paesi saranno restii a comprare nuovo debito USA, e quindi saranno necessarie più guerre che impongano con la forza la “fedeltà internazionale” verso gli USA e la supremazia del dollaro (non hai forse notato che l’aggressività degli USA è cresciuta di pari passo con l’erosione di questo sistema del debito?).
- tuttavia, nonostante le sue portaerei, ci sono alcuni paesi, come Russia e Cina, a cui l’America non può impedire con la forza di scaricare i titoli di stato USA.
Risultato: la capacità della Fed di tenere i tassi medi sotto l’1% sarà sempre più indebolita, man mano che questi paesi continueranno a essere venditori e non più compratori di titoli di stato USA (e l’attrito tra Trump e la Cina non aiuterà di certo).
In conclusione, il sistema basato sull’immissione di liquidità garantita da titoli di stato è sempre più debole e l’arrivo di Trump non invertirà la tendenza alla perdita di valore del dollaro.
Questa perdita di valore è stata attualmente mascherata dal proclama strombazzato dalla Fed di alzare i tassi a breve nel 2017.
Il dollaro infatti aveva ripreso a salire già molto prima, in attesa di questo proclama fatto dalla Fed a dicembre, e resterà per un pò a questi livelli, finché resterà in vigore l’illusione di una reale possibilità di rialzo dei tassi nel 2017.
Ma quando la Fed inizierà a smentire se stessa, evitando di alzare i tassi nel corso di quest’anno (esattamente come aveva fatto anche nel 2016, smentendo anche allora un identico proclama del dicembre 2015), la discesa del dollaro sarà inevitabile, a meno che non intervengano altri fattori nel frattempo.
Ora, cosa vuol dire tutto questo per chi investe in borsa?
Per chi come noi guarda a queste problematiche in termini di opportunità di investimento, il quadro che si delinea è davvero interessante.
Già il 2016 aveva visto la contemporanea crescita di trend solitamente opposti fra loro, come quello delle materie prime, della borsa azionaria e del dollaro.
Il 2017 avrà le stesse contraddizioni, perché se da un lato Trump potrà immettere nuova liquidità nei settori produttivi, facendo crescere il mercato azionario, dall’altro la vendita dei titoli di stato USA consentirà sempre più agli altri paesi di ricominciare a comprare materie prime per il loro sviluppo interno (materie prime che inizieranno a essere comprate anche all’interno degli USA, contrariamente a quanto successo nel 2016).
Allo stesso tempo, la criticità intrinseca di tutto il sistema è come appesa a un filo, rendendo necessario tenere d’occhio sempre più i titoli legati all’oro e all’argento, che nel frattempo hanno raggiunto dei minimi importanti da cui potrebbero ripartire alla grande al primo sentore di crisi, qualunque essa sia.
Noi di Segnali di Borsa abbiamo dunque pazientemente iniziato a studiare questo quadro misto.
Già da metà 2016 la nostra watch list si è arricchita di un numero di titoli molto più ampio di quello che potevamo permetterci nella lunga fase di stagnazione laterale durata dal 2015 alla prima metà del 2016.
Credo perciò che il 2017 avrà molte più opportunità rispetto ai due anni precedenti.
I migliori guadagni in borsa si fanno quando la situazione diventa contraddittoria e gli alti e bassi nei trend diventano ben definiti e lunghi, in modo da poter essere cavalcati per un tempo sufficiente a maturare dei rendimenti.
Le situazioni stagnanti e eccessivamente controllate sono deleterie per l’investitore.
Il 2017 promette di non essere né stagnante né controllabile. Quindi ci attendono opportunità di investimento da non perdere.
Segui perciò i nostri articoli sui prossimi trend; e per essere sicuro di non perderti nulla, iscriviti gratis a Segnali di Borsa per ricevere anche via email i nostri articoli.
Alla tua prosperità!
Il team di Segnali di Borsa